Il Colibrì è uno di quei locali di Milano a mezza strada tra il caffè letterario e la libreria. E’ frequentato soprattutto da universitari perché si trova dietro la Statale, al numero 9 della via che prende il nome da un ex laghetto in cui attraccavano i barconi che portavano i marmi per la fabbrica del Duomo. E’ un angolo che sa di borgo antico, ma con la vivacità del moderno ben incastonato negli spazi giusti.  Al Colibrì si tengono concerti, presentazioni di libri, mostre e, visto che a Milano l’aperitivo è di casa, si può anche andare solo per un aperitivo e intanto magari sfogliare un libro o scambiare sue idee con chi sta già lì e ha voglia di parlare. Questo è l’ambiente, colorato, gradevole, accogliente in cui l’artista italo-palestinese Noura Tafeshe ha esposto la sua prima interessante e coloratissima mostra.

Ancora i suoi lavori non ci risulta siano stati recensiti da un critico d’arte, e del resto questa è la sua prima uscita pubblica, ma riteniamo che non passerà molto tempo prima che il suo talento artistico venga conosciuto e apprezzato a livello più esteso. Dopo aver dato una prima occhiata ai suoi lavori nella sala talmente affollata di giovani e adulti che non si può sostare a lungo di fronte alle sue opere, sequestriamo l’artista per saperne di più. La ragazza è figlia di mamma italiana che si occupa per lavoro di eventi culturali e di padre palestinese venuto in Italia per studiare medicina circa 40 anni fa e dal quale ha appreso quel senso forte di appartenenza a una terra malata di ingiustizia e di dolore pur se nata in Italia. Noura ci dice di sentire molto forte, anche nel suo percorso professionale, il dramma di quelli che chiama il suo popolo e la sua terra perché l’occupazione israeliana riduce la possibilità di espressione artistica o addirittura deruba la Palestina della sua cultura e delle sue tradizioni, tentando di cancellarne o confonderne la memoria.

Aggiunge che il suo sentire palestinese non cancella la parte italiana ed è fiera di questo incrocio che ritiene essere una ricchezza. Ama e stima molto i suoi genitori e li considera come la causa prima della sua vocazione artistica raccontandoci un episodio della sua infanzia, quello di aver avuto per alcuni mesi libertà assoluta di scarabocchiare sulle pareti di casa prima che questa venisse ristrutturata. Da allora Noura non ha più lasciato le matite colorate; si, perché la sua arte si esprime principalmente attraverso carta e matite colorate realizzando opere piene di figure e di colori vivaci che hanno un che di onirico e gioioso.

Ma le sue opere non sono casuali, così come in fondo non lo è nessun sogno. Noura fa approfondite ricerche sul soggetto o i soggetti che intende passare sulla carta o, talvolta, sulla stoffa. La sua visione dell’arte è molto profonda e non si esaurisce nel gioco di colori o nella rielaborazione di personaggi che spesso si ispirano ad affreschi rinascimentali. L’artista ci spiega che prende le figure che le interessano e le miniaturizza  rielaborandole graficamente dopo aver eseguito un processo di fusione culturale che unisce aspetti antropologici, filosofici, botanici, poetici e linguistici in una sorta di koinè che lei definisce “transculturalismo”. Il suo interesse, forse prodotto proprio dalla diversa origine culturale dei suoi genitori, è quello di intrecciare aspetti culturali differenti sia per natura, quali ad esempio poesia e pittura, sia per situazioni geografiche e conseguenti riflessi culturali.

Le chiediamo cosa significhi “Ramè”, il nome che ha dato alla mostra e qui si apre un altro capitolo, o meglio si sviluppa un altro aspetto dello stesso capitolo che è il transculturalismo. Noura ci spiega che ramè è un termine tratto dalla lingua bali e significa più o meno caos vitale e gioioso. Le interessano molto le lingue originarie di luoghi che vanno scomparendo trasformandosi ed omologandosi secondo il divenire storico. Gli alfabeti fanno parte delle sue ricerche e in proposito ci dice che l’opera titolata il “trionfo di Bacco e Arianna” rielaborata dall’omonimo lavoro di Annibale Carracci, contiene la figura di una donna morta qualche anno fa, nata nelle isole Andamane e rimasta unica a parlare la lingua della sua isola. Questa scomparsa, dice Noura, significa perdere un pezzetto di vita appartenente a tutto il mondo e per questo ha voluto ricordarla inserendola nella sua opera.

I suoi lavori sono un gioco di intrecci sapienti, ma il suo obiettivo è quello di raggiungere un nuovo linguaggio che sappia intrecciare, appunto, le varie espressioni culturali ed espandersi. Questo obiettivo è venuto a formarsi durante il corso di laurea in Nuove tecnologie per l’arte all’Accademia di Brera. “E’ stato in quegli anni – dice – in cui lo studio, pur essendo prettamente teorico, mi ha fornito un’infinità di stimoli e grazie al prof. Caronia ho scoperto che c’è una possibile intersezione tra la tecnologia e l’arte. Grazie alle lezioni di quel docente abbiamo imparato la critica ai sistemi di comunicazione di massa e abbiamo imparato a riconoscere i sistemi di controllo e di sorveglianza; quello che abbiamo studiato è la comunicazione-guerriglia. Si chiama proprio così”.

Le chiediamo se quel che ha imparato in Accademia senza mai toccare una matita, abbia un riflesso evidente nei suoi lavori e la risposta è assolutamente affermativa. Senza alcuna remora Noura dice che in ogni suo lavoro c’è un pensiero o un messaggio politico e non perché sottometta il disegno al fine politico, ma semplicemente perché è nella sensibilità dell’artista assorbire e restituire in forma artistica ciò che avviene nella società. Nel suo caso specifico, e ci tiene a sottolinearlo, l’elemento politico è parte importante della sua storia familiare, perché suo padre è un palestinese che vive la tragedia del suo popolo e  sa che potrà tornare in Palestina solo se la resistenza avrà la meglio sull’occupazione. Sicuramente questa sua formazione artistica, aggiunge, “si è abbracciata come si abbracciano le radici alla mia formazione di persona e ha trovato una sintesi nell’artivismo, cioè nell’intrecciarsi di gioco, arte e attivismo che ho appreso nelle lezioni di comunicazione-guerriglia.”

Le facciamo ancora qualche domanda prima che venga risucchiata nella sala espositiva in cui la stanno aspettando.  Le chiediamo di spiegarci come si approccia ai visitatori delle sue esposizioni e cosa si aspetta nel futuro dell’arte e più specificamente di un’arte come la sua. Noura risponde che ogni sua opera, proprio perché frutto di approfondite ricerche in campo antropologico, botanico, linguistico e filosofico, può richiedere anche un anno per arrivare alla sua forma compiuta e questo va spiegato perché deve restare una testimonianza delle cause che l’hanno ispirata. Aggiunge che vorrebbe portare il disegno a essere un’esperienza prolungata, come la lettura di un libro, e non solo qualcosa di piacevole da appendere a un muro.  Il suo desiderio è che il disegno metta in moto infiniti intrecci di pensieri, in modo che emerga la sua pluridimensionalità; ci fa l’esempio mostrandoci una delle sue opere, in cui effettivamente appare la complessità relazionale che rappresenta l’eclettismo umano. Nel suo personale sito web ogni opera è dettagliatamente spiegata perché, ripete, quel che le interessa è fare del disegno un linguaggio prolungato.

La sala la reclama e siamo costretti a lasciarla, augurandole la fortuna che i suoi lavori e la sua formazione artistica e culturale meritano. La mostra resterà esposta nei locali del Colibrì fino al 17 marzo e, senza togliere niente al bel caffè letterario, diciamo che sarebbe stata bene anche nelle sale di Palazzo Reale. Il tempo c’è, in fondo Noura Tafeshe è ancora molto giovane.