E’ cominciata con la lettura dei nomi delle sei persone ferite nella sparatoria fascista di Macerata il convegno nazionale sul ruolo delle diaspore Med-Africane in Italia, tenutosi alla Camera dei Deputati il 7 febbraio e dedicato a migrazioni, accoglienza, inclusione e co-sviluppo. “Sui media si è parlato molto più dell’assalitore che non di queste vittime – ha spiegato nell’introduzione Janiki Cingoli, presidente del Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo) – Questo ci fa riflettere sul clima che si è creato in Italia e sulle strumentalizzazioni intorno a questo tema, l’immigrazione, diventato uno spauracchio”. Ma se da una parte c’è chi soffia sul fuoco dell’odio (anche e soprattutto a fini politici), dall’altra c’è chi lavora per trovare soluzioni e percorsi di accoglienza e integrazione in quello che – ricordiamolo – non è un fenomeno ma una realtà strutturale nel nostro paese. Ed è qui che il ruolo delle diaspore Med-Africane è chiamato ad assumere una posizione di primo piano, facilitando l’inclusione dei nuovi arrivati nel “tessuto sociale” italiano, “riducendo il pericolo di derive terroristiche e promuovendo progetti di co-sviluppo nei Paesi d’origine”. Ne sono convinti i promotori del convegno, in un percorso di dialogo con le istituzioni arrivato al secondo anno: il Cipmo in primis, in partnership con il Centro Studi di Politica Internazionale (CeSpi), in collaborazione con il Centro Piemontese di Studi Africani (Csa), la Rivista Confronti e il Centro Studi e Ricerche Idos – Dossier Statistico Immigrazione, sostenuto dall’Unità di Analisi, Programmazione e Documentazione Storico Diplomatica del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

Oltre che facilitare i processi di inclusione dei nuovi arrivati, comunità diasporiche possono infatti svolgere anche un essenziale ruolo di ponte economico, sociale e culturale con i Paesi di origine, facilitando e promuovendo gli scambi e la cooperazione ad ogni livello e trasformandosi in “ambasciatori” del sistema Italia”. Sul fronte interno, scoraggiano la creazione di “ghetti chiusi”, operando spesso in stretto contatto con le istituzioni nazionali e locali, con le organizzazioni del volontariato e le associazioni religiose, con la società civile, e con le istituzioni preposte alla sicurezza nazionale. “Di queste comunità fanno parte anche cittadini di seconda e terza generazione – ricorda Cingoli –, ormai parte integrante della nostra società e dunque pienamente inseriti nel processo produttivo e nel settore dei servizi, un elemento essenziale e vitale. Si stima, infatti, che il loro numero in Italia sia di circa sei milioni, e tra loro un milione sia costituito da cittadini italiani a pieno titolo”.

“Io mi definisco cittadino del posto in cui vivo. E non mi sono mai sentito straniero in Italia tranne negli ultimi anni” racconta Adramet Barry, originario della Repubblica di Guinea e presidente dell’Alto Consiglio dei guineani all’estero. Elenca i problemi che le persone straniere che arrivano nel nostro paese si trovano ad affrontare: “Si sentono invisibili, non partecipano alla costruzione dei programmi inclusivi, e spesso seguono percorsi che li fanno sentire solamente dei soggetti produttivi. In questo modo, il concetto del singolo migrante è ridotto a due cose: lavorare e pagare le tasse. Non si sentono mai protagonisti, come se ci fosse un muro invisibile che li separa dai cittadini italiani”. Anche per questo nella sua attività instancabile di promozione dell’esperienza guineana, Barry ha puntato anche sulla cultura, bussando alle porte del Salone del Libro di Torino per poi approdare al riconoscimento Unesco di Conakry quale Capitale mondiale del Libro per il 2017, e organizzando ogni mese delle iniziative di incontro tra cittadini torinesi e guineani.

“Le comunità immigrate in Italia sono la prima piattaforma di atterraggio nell’arrivo in Italia. Ma sono anche l’incubatore di quelle che possono essere le idee imprenditoriali, le scelte e gli orientamenti lavorativi” spiega SiMohamed Kaabour, cresciuto a Genova e presidente del Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane (CoNNGI). Sottolinea il ritardo della politica nel cogliere alcune trasformazioni che arrivano dalle comunità locali e che, funzionando, diventano buone prassi: “E’ necessario armonizzare e rendere queste buone prassi un bene collettivo, non solo locale. Ci sono sperimentazioni già attive sul territorio, che possono fungere da basi di partenza per integrare una persona nel contesto italiano. Integrazione intesa non solo come creazione di consumatori o braccia al servizio di un lavoro, ma come valorizzazione delle esperienze e dell’expertise di queste persone”. Punto di vista condiviso anche da Abderrahmane Amajou, consigliere comunale di Bra (Cuneo) e coordinatore per Slow Food International, che ricorda varie esperienze tra cui la Cooperativa sociale Barikamà: un progetto di micro-reddito gestito da ragazzi africani che vivono a Roma, che consiste nell’inserimento sociale attraverso la produzione e vendita di yogurt ed ortaggi biologici. “Esempi simili ce ne sono tantissimi sparsi in tutta Italia, uomini e donne che fanno grande il nostro paese. Ma serve il sostegno del tessuto sociale, e il ruolo delle diaspore come mediatrici è fondamentale”.

In tema di buone prassi, non poteva poi mancare il focus sui Corridoi Umanitari, iniziativa promossa dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia, dalla Tavola valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio, quale esempio di progetto concreto e riproducibile anche in altri contesti, così come il modello Sprar di accoglienza diffusa dei migranti nei Comuni italiani, su base volontaria. Peccato che il clima di perenne emergenza e l’informazione strumentalizzata a fini politici spesso non facilitino affatto questi percorsi. “L’informazione è un’importante alleata della coesione sociale – commenta ancora Amajou – La cattiva informazione che vediamo tutti i giorni porta invece al sonno della ragione che, come abbiamo visto, genera mostri”. L’invito rivolto alle diaspore è quindi quello di assurgere a ruolo attivo – anche politico, come suggerisce il viceministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Mario Giro – ma per farlo è necessario dotarle di mezzi e risorse. “Si tratta spesso di aggregazioni volontarie che si fermano a primi livelli di incontro e di attività – termina Janiki Cingoli – va quindi sviluppata un’articolata iniziativa per promuovere e innalzare il livello di tali associazioni, la loro capacità di intervento e di progettazione, con azioni specifiche e mirate”.

Articolo di Anna Toro

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