Quando il 22 novembre scorso la Corte Costituzionale si era pronunciata in modo negativo nei confronti del ricorso presentato dalla Regione Veneto sul decreto legge n. 73 del 2017, convertito nella legge n. 119 del 2017, in materia di vaccinazioni obbligatorie per i minori fino a 16 anni di età, il Governo aveva cantato vittoria e in particolare la Ministra della Salute Beatrice Lorenzin aveva espresso “grande soddisfazione”.
A distanza di due mesi, andando a leggere il dispositivo della sentenza n. 5, depositata il 18 gennaio 2018, la questione di rivela più complessa.
Il comunicato stampa della Consulta riportava il titolo “Obbligo dei vaccini legittimo nel contesto attuale”, dal quale già si poteva dedurre che si tratta di un riconoscimento relativo e non assoluto, cioè che non sempre e non automaticamente tale obbligo è da considerarsi legittimo.
Analizzando poi il dispositivo della sentenza, si ricava una valutazione molto articolata: ovviamente non è possibile qui riportarne tutti gli aspetti, ma si possono evidenziare le argomentazioni più rilevanti.
Anzitutto va detto, che la Corte sottolinea più volte che alcuni contenuti del ricorso sono decaduti , poiché il Parlamento ha modificato in modo significativo alcuni aspetti della normativa approvata dal Governo. In particolare, sono state ridotte le vaccinazioni obbligatorie (da 12 a 10), sensibilmente attenuate le sanzioni pecuniarie e introdotte forme di incontro con i genitori per favorire un’adesione consapevole e informata al programma vaccinale. Dal testo di evince abbastanza chiaramente che la sentenza avrebbe potuto essere diversa se fosse rimasto invariato il testo governativo. In altre parole è stato l’intervento parlamentare di moderazione e flessibilità che ha consentito di superare il vaglio di costituzionalità della norma. Insomma, la pronuncia di costituzionalità non è attribuibile al testo del decreto presentato dal Governo o del Ministro della Salute.
Inizialmente la Corte ribadisce una posizione consolidata nel tempo: “I valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici e implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute individuale e collettiva (tutelate dall’art. 32 Cost.), anche l’interesse del minore, da perseguirsi anzitutto nell’esercizio del diritto-dovere dei genitori di adottare le condotte idonee a proteggere la salute dei figli (artt. 30 e 31 Cost.), garantendo però che tale libertà non determini scelte potenzialmente pregiudizievoli per la salute del minore”.
Di conseguenza, secondo la Consulta, “il contemperamento di questi molteplici principi lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo. Questa discrezionalità deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 2017), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia”.
La Corte esplicitamente conferma che in linea generale le scelte di politica sanitaria sono di competenza del legislatore e per gli aspetti tecnici rimanda alle evidenze scientifiche in relazione al tempo e al contesto, dimostrando di avere uno sguardo attento allo scenario di altri Paesi: “Posto un generale favor giuridico per le politiche di diffusione delle pratiche vaccinali – basate sulle evidenze statistiche e sperimentali delle autorità competenti e specialmente dell’OMS, che considerano la vaccinazione una misura indispensabile per garantire la salute individuale e pubblica – diversi sono gli strumenti prescelti dai vari ordinamenti per conseguire gli obiettivi comuni. A un estremo, si trovano esperienze che ancora di recente hanno conosciuto obblighi vaccinali muniti di sanzione penale (Francia); all’estremo opposto si trovano programmi promozionali massimamente rispettosi dell’autonomia individuale (come nel Regno Unito); nel mezzo, si ravvisa una varietà di scelte diversamente modulate, che comprendono ipotesi in cui la vaccinazione è considerata requisito di accesso alle scuole (come avviene negli Stati Uniti, in alcune Comunità autonome in Spagna e tuttora anche in Francia) ovvero casi in cui la legge richiede ai genitori (o a chi esercita la responsabilità genitoriale) di consultare obbligatoriamente un medico prima di operare la propria scelta, a pena di sanzioni pecuniarie (Germania). Peraltro, questa diversa intensità di vincoli si accompagna a una altrettanto varia individuazione del numero dei vaccini proposti o richiesti”.
Per quanto riguarda l’Italia la Consulta ricorda che “verso la fine degli anni novanta, in concomitanza con l’accentuarsi di una più spiccata sensibilità per i diritti di autodeterminazione individuale anche in campo sanitario, sono state privilegiate le politiche vaccinali basate sulla sensibilizzazione, l’informazione e la persuasione, piuttosto che sull’obbligo, garantendo comunque che tutte le vaccinazioni fossero oggetto di offerta attiva, rientrassero nei livelli essenziali delle prestazioni e fossero somministrate gratuitamente a tutti i cittadini secondo le cadenze previste dai calendari vaccinali. In questo contesto, in alcune Regioni, in via sperimentale, si è sospeso l’obbligo di vaccinazione, come è accaduto ad esempio proprio in Veneto con la legge regionale n. 7 del 2007. Tuttavia, negli anni più recenti, si è assistito a una flessione preoccupante delle coperture, alimentata anche dal diffondersi della convinzione che le vaccinazioni siano inutili, se non addirittura nocive: convinzione, si noti, mai suffragata da evidenze scientifiche, le quali invece depongono in senso opposto. In proposito, è bene sottolineare che i vaccini, al pari di ogni altro farmaco, sono sottoposti al vigente sistema di farmacovigilanza che fa capo principalmente all’Autorità italiana per il farmaco (AIFA). Anche per essi, come per gli altri medicinali, l’evoluzione della ricerca scientifica ha consentito di raggiungere un livello di sicurezza sempre più elevato, fatti salvi quei singoli casi, peraltro molto rari alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, nei quali, anche in ragione delle condizioni di ciascun individuo, la somministrazione può determinare conseguenze negative. Per tale ragione l’ordinamento reputa essenziale garantire un indennizzo per tali singoli casi, senza che rilevi a quale titolo – obbligo o raccomandazione – la vaccinazione è stata somministrata (come affermato ancora di recente nella sentenza n. 268 del 2017, in relazione a quella anti-influenzale)”.
Secondo la Corte “si assiste, dunque, oggi a una inversione di tendenza – dalla raccomandazione all’obbligo di vaccinazione – in cui si inserisce anche la normativa oggetto del presente giudizio. Valutata alla luce del contesto descritto nei suoi tratti essenziali, la scelta del legislatore statale non può essere censurata sul piano della ragionevolezza per aver indebitamente e sproporzionatamente sacrificato la libera autodeterminazione individuale in vista della tutela degli altri beni costituzionali coinvolti, frustrando, allo stesso tempo, le diverse politiche vaccinali implementate dalla ricorrente. Il legislatore, infatti, intervenendo in una situazione in cui lo strumento della persuasione appariva carente sul piano della efficacia, ha reso obbligatorie dieci vaccinazioni: meglio, ha riconfermato e rafforzato l’obbligo, mai formalmente abrogato, per le quattro vaccinazioni già previste dalle leggi dello Stato, e l’ha introdotto per altre sei vaccinazioni che già erano tutte offerte alla popolazione come raccomandate”.
D’altra parte la Corte riconosce che si tratta di una maggior costrizione: “Indubbiamente, il vincolo giuridico si è fatto più stringente: ciò che in precedenza era raccomandato, oggi è divenuto obbligatorio. Ma nel valutare l’intensità di tale cambiamento occorre peraltro tenere presenti due ordini di considerazioni.
Il primo è che nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici. In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo (tanto che sul piano del diritto all’indennizzo le vaccinazioni raccomandate e quelle obbligatorie non subiscono differenze: si veda, da ultimo la sentenza n. 268 del 2017). In quest’ottica, occorre considerare che, anche nel regime previgente, le vaccinazioni non giuridicamente obbligatorie erano comunque proposte con l’autorevolezza propria del consiglio medico.
Il secondo è che nel nuovo assetto normativo, basato, come si è detto sull’obbligatorietà (giuridica), il legislatore in sede di conversione ha ritenuto di dover preservare un adeguato spazio per un rapporto con i cittadini basato sull’informazione, sul confronto e sulla persuasione: in caso di mancata osservanza dell’obbligo vaccinale, l’art. 1 comma 4 del decreto-legge n. 73 del 2017, come convertito, prevede un procedimento volto in primo luogo a fornire ai genitori (o agli esercenti la potestà genitoriale) ulteriori informazioni sulle vaccinazioni e a sollecitarne l’effettuazione. A tale scopo, il legislatore ha inserito un apposito colloquio tra le autorità sanitarie e i genitori, istituendo un momento di incontro personale, strumento particolarmente favorevole alla comprensione reciproca, alla persuasione e all’adesione consapevole. Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative previste, peraltro assai mitigate in seguito agli emendamenti introdotti in sede di conversione”.
Il punto più rilevante del dispositivo della sentenza è forse il seguente: “Nel presente contesto, dunque, il legislatore ha ritenuto di dover rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, configurando un intervento non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche. Nulla esclude che, mutate le condizioni, la scelta possa essere rivalutata e riconsiderata. In questa prospettiva di valorizzazione della dinamica evolutiva propria delle conoscenze medico-scientifiche che debbono sorreggere le scelte normative in campo sanitario, il legislatore – ai sensi dell’art. 1, comma 1-ter del decreto-legge n. 73 del 2017, come convertito – ha opportunamente introdotto in sede di conversione un sistema di monitoraggio periodico che può sfociare nella cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini ((e segnatamente di quelli elencati all’art. 1, comma 1-bis: anti-morbillo, anti-rosolia, anti-parotite, anti-varicella). Questo elemento di flessibilizzazione della normativa, da attivarsi alla luce dei dati emersi nelle sedi scientifiche appropriate, denota che la scelta legislativa a favore dello strumento dell’obbligo è fortemente ancorata al contesto ed è suscettibile di diversa valutazione al mutare di esso”.
La Corte considera l’obbligo vaccinale come temporaneo a tal punto che di fatto – forse andando oltre i propri compiti istituzionali – fornisce indicazioni ulteriori al legislatore: “Peraltro, non si può fare a meno di rilevare che tale strumento di flessibilizzazione si applica solo a quattro dei dieci vaccini imposti obbligatoriamente dalla legge. Analoghe variazioni nelle condizioni epidemiologiche, nei dati relativi alle reazioni avverse e alle coperture vaccinali potrebbero suggerire al legislatore di prevedere un analogo meccanismo di allentamento del grado di coazione esercitabile anche in riferimento alle sei vaccinazioni indicate al comma 1, dell’art. 1 (anti-poliomielitica, anti-difterica, anti-tetanica, anti-epatite B, antipertosse, anti Haemophilus influenzae tipo b)”.
In conclusione la Corte dice chiaramente che l’obbligatorietà delle vaccinazioni è consentita soltanto in un determinato contesto di livelli di prevenzione ritenuti insufficienti e pertanto le norme dovrebbero sempre prevedere la possibilità di togliere l’obbligo per ciascun tipo di vaccinazione qualora la situazione evolvesse positivamente.
Si potrebbe dire che il ricorso della Regione Veneto è stato respinto perché la legge approvata dal Parlamento “non è irragionevole” nel presente contesto, ma paradossalmente osservare che l’impostazione di fondo della normativa del Veneto, che prevede che le vaccinazioni siano di norma raccomandate e possano diventare obbligatorie soltanto in caso di pericolo per la salute pubblica, dovrebbe essere assunta anche dal legislatore nazionale. Di conseguenza la grande vittoria, sbandierata impropriamente dal Governo e dalla attuale Ministra della salute, a ben vedere potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro.