“L’etnocentrismo produce vari fenomeni. Porta l’individuo a non capire o a giudicare stravaganti le altre culture, perché le vede in funzione della propria. Anche le specializzazioni culturali vengono interpretate etnocentricamente. Si afferma che l’uomo cosiddetto primitivo non sa generalizzare, dato che usa termini specifici per riferirsi alle diverse parti di una pianta o di un animale e non forgia vocaboli con cui rapportarsi all’intero genere di tali piante e animali. In realtà, la specificazione minuziosa rivela una specializzazione culturale: in qualsiasi società, infatti, la lingua tende a indicare dettagliatamente ciò che è di grande interesse del gruppo. L’etnocentrismo induce a pensare che la lingua orale sia corretta solo quando comincia a essere scritta; invece essa è la vera essenza del linguaggio, il punto di partenza, essendo la scrittura una modalità sviluppatasi per stabilire una comunicazione visiva. La lingua racchiude in sé tutta la cultura, ne è la rappresentazione in miniatura”.*

Per millenni i popoli indigeni non hanno avuto bisogno della scrittura per trasmettere cosmogonia, sapienza, scienza. Le tradizioni delle loro società indivise, delle loro vite collettive, sono state tramandate oralmente e consacrate da miti, rituali, canti e danze. Dietro ai termini che si riferiscono al più meschino oggetto e alla più limitata azione si celano concetti. Dietro le quinte della cultura si celano le concezioni filosofiche che l’hanno prodotta. Il paziente e difficile studio delle lingue indigene da parte dei gesuiti dei secoli XVI e XVII, al seguito degli invasori, celava il desiderio di essere capiti, e ciò che si voleva fosse capito era il messaggio della dottrina cristiana. In era moderna, nelle scuole gestite sia dallo Stato che dalla Chiesa, l’annientamento culturale dei sopravvissuti allo sterminio fisico è stato portato avanti con metodi meno sofisticati, dato che l’alfabetizzazione avveniva nella lingua dei colonizzatori e l’uso di quelle indigene era proibito e punito. L’obiettivo finale era lo stesso: i contenuti inducevano gli indios a rinnegare valori sociali e religiosi delle loro culture e a sostituirli con pseudovalori della cultura occidentale. Anche alle scuole, insomma, era affidato il compito di assimilare gli indigeni a quella che era definita “comunione nazionale”. Dal canto suo la società nazionale forgiava castronerie secondo cui quelli prodotti dai “selvaggi” sarebbero suoni inarticolati; quelle parlate dagli indios non sarebbero lingue ma dialetti; all’evidenza che sono lingue con forme e regole grammaticali proprie, insisteva nel suo etnocentrismo classificandole lingue povere, cioè che disporrebbero di strutture linguistiche rudimentali e di un limitato numero di vocaboli.

Negli anni settanta del secolo scorso, quanti avevano scelto di coinvolgersi con le sorti dei popoli indigeni brasiliani, con essi, innanzi tutto, condividevano la propria esistenza. Un atteggiamento di profondo ascolto e rispetto caratterizzava la loro partecipazione alla globalità della vita comunitaria, predisponendoli a prendere decisioni ponderate di fronte alla complessità della situazione. Dopo cinquecento anni di massacro culturale, urgeva far sì che gli indigeni potessero costruire le proprie relazioni con la società nazionale a partire da posizioni di uguaglianza. Cioè, bisognava provare che i popoli indigeni hanno la propria storia, lingua, cultura e, soprattutto, diritto alla sopravvivenza fisica e culturale. Nella maggior parte dei casi gli indigenisti non avevano una formazione accademica specifica, ma la convivenza stessa operava il prodigio di trasformarli in ricercatori.

Il primo passo era lo studio sistematico di documenti e pubblicazioni storiche, etnografiche, linguistiche relative alla società con la quale avevano scelto di vivere e lottare. Se esisteva, questa letteratura non era affatto accessibile. Essenzialmente, si trattava di tesi di laurea e dottorato realizzate per conto di università inglesi e statunitensi, in circolazione nel ristretto ambito degli addetti ai lavori. Il fatto che gli autori non si preoccupassero di spedire in Brasile, a chi di dovere, esemplari dei loro studi denunciava quale concetto avessero della propria scienza: così pura da non applicarla alle sorti dei popoli studiati; unica contaminazione materiale permessale era l’ottenimento di titoli di studio e riconoscimenti accademici. Poteva risultare, inoltre, che varie ricerche ed esperienze fossero già state realizzate, anche con lo stesso popolo indigeno, senza essere state, però, sistematizzate o divulgate: restando squallidamente inutilizzabili, determinavano un perverso, più che sterile, cominciare e ricominciare. Convinti del fatto che solo l’accumulo delle conoscenze avrebbe contribuito a far avanzare le proposte politico-pedagogiche da svolgersi, gli eroi mitologici dell’indigenismo brasiliano si trasformarono quindi in antropologi, linguisti, storiografi e pedagoghi.

Una a una, certosinamente, gli indigenisti raccoglievano le informazioni trasmesse dagli indios. Orientati da specialisti delle varie aree, elaboravano i dati trasformandoli in grammatiche, dizionari, abbecedari, libri di lettura, testi etnografici, manuali. I primi beneficiari di questa messe letteraria erano gli indios: rendendo omaggio ai loro mondi culturali, i materiali li stimolavano a prendere coscienza delle rispettive identità etniche e affermarle, a rivendicare i propri diritti e difenderli. Parallelamente, la produzione serviva per sensibilizzare gli uomini bianchi, che si vedevano sbattere in faccia la prova scritta, scientifica, irrefutabile, dei valori culturali insiti in qualsiasi società, sia pure minoritaria. Non ultima, si voleva raggiungere la finalità di stimolare persone sprovviste di formazione adeguata ad avvicinarsi in modo più rispettoso e competente alle società indigene con le quali si trovavano o si sarebbero trovare a lavorare. Il fine ultimo del processo produttivo era la socializzazione del sapere. Attraverso un capillare lavoro di divulgazione, i saggi venivano spediti a gruppi di appoggio, istituti, università, biblioteche, ministeri, segretariati. Gli studiosi interessati comparavano i dati pubblicati ai loro, a quelli di altri, a quelli che si sarebbero aggiunti, così che le conoscenze andarono accumulandosi e trasformandosi in patrimonio collettivo.

Io non fui da meno. Attraverso lo studio della lingua, iniziò la mia approssimazione all’universo yanomami. Più mi avvicinavo a questo universo, più mi allontanavo dall’etnocentrismo. A livello di équipe avevamo deciso di realizzare un piano di coscientizzazione, di cui l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna avrebbe fatto parte. L’aspettativa era di fornire alle comunità attinte conoscenze da usarsi per meglio difendersi nello scontro con il mondo occidentale, che stava invadendo il territorio indigeno attraverso i suoi fronti di espansione. Iniziai lo studio della lingua yanomami attraverso l’analisi di scarso materiale linguistico e di un mazzetto di schede inerenti la vegetazione locale. Conclusi che non sarebbe stato quel materiale a mettermi in condizioni di iniziare a dialogare con gli indios. Avevo bisogno di conoscere verbi, termini di uso quotidiano, regole grammaticali, concetti. Chiesi all’amico Kretipè Hewenahipitheri di essere mio informante e di fungere anche da intermediario tra me e la comunità. Kretipè spiegò agli yanomami che volevo parlare la loro lingua, studiarla, scoprirne i segreti, codificarla, scriverla. Il mio impegnò cominciò a essere visto come rispetto e valorizzazione della cultura yanomami. Successivamente lavorai anche con Xiko Wahathautheri e Atriyãno Hewenahipitheri. Il primo frutto della ricerca linguistica fu la Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), ciclostilata nel 1981 nella città di Boa Vista in, mi sembra, una cinquantina di copie. Il secondo frutto fu il Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese), stampato a San Paolo del Brasile nel 1987 in ottocento esemplari.

Il 12 luglio del 2014 ho pubblicato, sulla pagina facebook di un’associazione di servizio e cooperazione con il popolo yanomami, la versione pdf, scaricabile in download, del mio dizionario. Il 15 luglio del 2017, la scienza ha operato il miracolo di resuscitare il post che, in dieci giorni, è stato condiviso da duemila e trecentodieci persone. Il risultato è stato che, in questi giorni di caldo soffocante, su di me è caduta una pioggia rigeneratrice di mi-piace, cuoricini, faccine, simboli, alcuni dei quali incomprensibili per la verità. Sono arrivate anche fresche considerazioni sull’importanza e validità che l’opera ha per linguisti, indigenisti, alleati degli yanomami; tra i commenti più gratificanti, quello di un italiano che ha scritto: “Questo suo Dicionário Yãnomamè-Português, mi sembra (anche) pura poesia”. Sono persino emerse nuove applicazioni: una francesina ha scritto che gli sarà di grande utilità nello scrivere il prossimo libro per bambini, attraverso il quale vuole mettere in risalto l’infanzia tra gli yanomami; una coppia brasiliana ha selezionato dei termini tra cui scegliere il nome da mettere al figlio in arrivo; un fumettista, anche lui brasiliano, ha dichiarato di trarne spunti per il suo prossimo lavoro. La seconda vita della mia ricerca linguistica mi sta regalando una gioia profonda e mi incoraggia a condividere le versioni pdf della grammatica e del dizionario yanomami con i lettori di vari spazi web.

* Introdução às Línguas Indígenas Brasileiras, J. Mattoso Camara Jr., Livraria Acadêmia, Rio de Janeiro, 1965.

Grammatica:

https://www.academia.edu/34443046/Gramática_pedagógica_da_l%C3%ADngua_yãnomamè

Dizionario:

https://www.academia.edu/34402837/Dicionário_Yãnomamè-Português

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