Nella scala dei bisogni, mangiare e bere sono al secondo posto, subito dopo il respirare. Senza cibo non si cresce, non si impara, non si lavora. Si è larve umane. Secondo la Fao, 800 milioni di persone sono in condizione di fame cronica, ossia assumono meno di 1800 calorie al giorno. Ma se allarghiamo la visuale anche a chi soffre per altre forme di carenza alimentare, scopriamo che i sottoalimentati sono oltre 2 miliardi, quasi un terzo della popolazione mondiale. Colpa della insufficiente produzione di cibo? Non proprio a giudicare dai 2 miliardi di individui sovrappeso, 650 milioni dei quali decisamente obesi.
Chi mangia troppo, chi troppo poco: schizofrenia di un sistema agricolo che ormai non produce più cibo per la vita di tutti, ma merci per l’arricchimento di pochi. E non certo dei contadini a diretto contatto con la terra, ma di chi occupa ben altre posizioni. Se esaminiamo la filiera agricola scopriamo che il settore è strutturato a sandwich. Sopra ci sono le imprese che forniscono gli ingredienti per l’agricoltura: sementi, fertilizzanti, pesticidi. Sotto le imprese che fanno incetta di prodotti agricoli da rivendere alle industrie alimentari e ai supermercati. Nel mezzo gli agricoltori che finalmente seminano e raccolgono. E’ l’economia dell’estrazione dove le imprese di sopra e di sotto sono quelle che fanno i soldi con strategie contrapposte: le prime imponendo alti prezzi sui prodotti che vendono, le seconde imponendo bassi prezzi sui prodotti che acquistano. Potere della loro posizione dominante considerato che una manciata di multinazionali, fra cui Bayer, Monsanto, Syngenta, DuPont, controlla il mercato degli ingredienti, mentre un’altra manciata, fra cui Cargill, Bunge, ADM, Dreyfus, controlla i mercati di sbocco di cereali, soya, cacao.
Nella logica dei soldi, cosa produrre, come e per chi, non ha importanza. L’importante è vendere sempre di più creando un divario sempre più ampio fra spese e ricavi. In fondo il nocciolo del capitalismo è tutto qui. Così l’agricoltura è stata trasformata in un gigantesco tritacarne dentro il quale la terra è un semplice substrato da inondare di chimica per ottenere la germinazione e la crescita forzata delle piante, le sementi un’accozzaglia di molecole da modificare in base ai calcoli di migliore resa finanziaria, i lavoratori braccia da sfruttare, i consumatori anatre da ingozzare in base alla loro capacità di acquisto: a digiuno chi non ha soldi da spendere, all’ingrasso tutti gli altri. E i risultati si vedono non solo sul piano sociale, ma anche quello ambientale, due ambiti inseparabili come ci ricorda Papa Francesco che ci invita ad affrontare congiuntamente le due tematiche nella prospettiva dell’ecologia integrale.
Secondo le Nazioni Unite, l’agricoltura industriale provoca ogni anno la perdita di 75 miliardi di tonnellate di suolo fertile e non è un caso se in perfetto stile coloniale si è rimesso in moto la corsa all’accaparramento di terre da parte delle grandi imprese dell’agroindustria d’occidente come d’oriente. Stiamo parlando del landgrabbing, alla lettera furto di terre, che coinvolge principalmente l’Africa, il grande continente eternamente saccheggiato. E mentre i nostri mercati sono inondati di fiori, fagiolini e ogni altra primizia fuori stagione, in paesi come Etiopia, Kenya, Camerun, migliaia di contadini sono espulsi dalle loro terre e ricacciati fra le fila degli affamati.
La chiave per uscire da questa situazione è al tempo stesso nelle mani dei cittadini-consumatori e dei governi. Dei cittadini perché possono condizionare il mercato tramite il voto col portafoglio e nuove abitudini alimentari. Comprando prodotti a km zero, richiedendo prodotti biologici e di stagione, aderendo ai gruppi di acquisto solidale, possiamo rafforzare le piccole aziende locali che operano all’insegna della responsabilità sociale e ambientale. Riducendo il consumo di carne possiamo indebolire un sistema agricolo perverso che ha dato vita ad una pletora di animali per assorbire una pletora di cereali prodotta da una pletora di chimica. Non senza danni per l’intero ecosistema, considerato che l’allevamento animale contribuisce al 14% dell’intera produzione di anidride carbonica.
La soluzione è anche nelle mani dei governi e dei parlamenti perché possono, anzi debbono, intervenire per impedire che le imprese ci trascinino in avventure tecnologiche dagli esiti ignoti per la natura e gli esseri umani. Devono intervenire per interrompere i processi di concentrazione proprietaria che permettono a pochi colossi di determinare le sorti alimentari dell’intera umanità. Ma soprattutto devono smetterla con l’atteggiamento pilatesco di tipo neoliberista che demanda al mercato ogni decisione sulla forma che deve assumere la filiera agricola e alimentare. I governi devono tornare ad assumersi la responsabilità di ruolo guida del sistema agricolo e dell’intera economia. Devono tornare ad utilizzare gli strumenti della fiscalità, della produzione legislativa, della spesa di bilancio, per spingere il sistema produttivo verso la piena inclusione lavorativa, la salute pubblica, la sostenibilità ambientale, l’equità, la dignità umana. Devono farlo prima che sia troppo tardi. Dovrebbero ricordarselo i ministri dell’agricoltura del G7, facendo seguire passi concreti alle dichiarazioni di intenti.

 

Articolo originale pubblicato su Avvenire il 14/10/2017