Dopo aver completato la triennale in Scienze Politiche a Milano, ho continuato a studiare in Inghilterra e ora sto finendo un dottorato all’università di Sheffield. Posso quindi intervenire nel dibattito sul numero chiuso all’università in Italia portando la mia esperienza nei due Paesi.

Sono contrario al numero chiuso, ma credo che questa opposizione vada assolutamente abbinata a una campagna per un maggiore investimento nell’università e a una riforma che punti a smantellare il “baronato” e tutte le strutture di potere nel mondo accademico. Il problema delle risorse e della qualità dell’educazione è reale, ma non si risolve semplicemente limitando l’accesso e rendendo l’università più elitaria.

Ho sempre trovato criticabile come metodo di selezione l’idea di introdurre un esame di ingresso, o di limitare l’accesso a seconda del voto preso all’esame di maturità. Molte persone conosciute durante la triennale, che hanno poi continuato con successo la carriera universitaria, forse non sarebbero riuscite ad accedervi altrimenti. Inoltre, un esame di ingresso potrebbe sfavorire gli studenti provenienti dagli istituti tecnici, spesso appartenenti a classi più svantaggiate, e impedirne di fatto l’accesso all’università.

Il modello inglese che ho potuto conoscere da vicino in questi anni ha una base elitaria, con una fascia molto ristretta di università di qualità (con maggiori fondi a disposizione) e, poi, varie università di livello via via inferiore. È in sostanza una riproposizione del modello classista della società del Regno Unito all’interno del sistema universitario stesso.

Quello inglese è un sistema che mostra tutte le contraddizioni di un’università mercificata e organizzata intorno a criteri di produttività e rendimento. Sicuramente rispetto all’Italia e ad altri sistemi continentali più tradizionali è più dinamico, dispone di maggiori fondi e offre migliori possibilità agli accademici giovani. D’altra parte prevede però un regime di disciplina molto forte: tutti gli studenti sono sotto pressione per produrre ricerche di alto livello e stressati per i numerosi compiti legati all’insegnamento, alla ricerca e alle questioni amministrative. Poi, si sta diffondendo una crescente precarizzazione dell’impiego, rispetto anche solo a un decennio fa: un numero sempre maggiore di posizioni sono per uno o due anni – a volte anche per un solo semestre – invece che a tempo indeterminato. E tutto questo si regge infine su tasse universitarie molto alte, sull’indebitamento degli studenti per accedere all’università e sulla forte commercializzazione del mondo universitario. L’esempio più eclatante in questo senso sono gli Stati Uniti, dove le università sono diventate compagnie di investimento a pieno titolo che gestiscono portafogli immobiliari vastissimi e considerano l’insegnamento quasi un’attività secondaria.

Il modello italiano, abbastanza orizzontale e universale – almeno in teoria – va difeso perché rappresenta un’idea più inclusiva e meno competitiva di insegnamento universitario. In questo senso bisognerebbe facilitare l’accesso agli studenti lavoratori, introdurre lezioni serali e altre misure simili.

Per alcune facoltà specialistiche come medicina, o per altre dove l’insegnamento richiede strumentazioni molto sofisticate e costose (ingegneria, chimica, eccetera) il numero chiuso più essere effettivamente una necessità; ma nelle facoltà umanistiche l’unico limite mi pare sia costituito dal blocco delle assunzioni e dalla mancanza di posti di insegnamento per ricercatori e precari. In questo ambito non vedo giustificazioni al numero chiuso: molto meglio investire per assumere ricercatori e insegnanti e magari mandare in pensione qualche barone.

Insomma, invece di idealizzare il modello anglo-sassone, l’Italia dovrebbe proteggere e incentivare un’istruzione universitaria pubblica, inclusiva e di qualità.