E’ un fatto acclarato, e largamente studiato, che le migrazioni hanno costituito la storia del mondo (accennavo in un mio intervento a quelle dette “bibliche“, avvenute in epoche antichissime, delle quali parlano le Scritture), tanto che gli storici (traggo da un saggio di Caroline Andréani, storica francese) le distinguono in “repulsive“, nelle quali ragioni locali – economiche, o politiche, o ambientali, o di altro tipo – spingono gli individui a lasciare il luogo in cui vivono, e “attrattive“, nelle quali giocano, a muovere le persone, la ricerca di nuove terre, o il sogno della ricchezza o… l’amore per l’avventura. Le une e le altre sono state talvolta spontanee, talaltra organizzate (nulla di nuovo sotto il sole).

E’ una storia che appartiene anche all’Italia, che ha avuto milioni di emigranti (si calcola che nel mondo ci siano circa 60 milioni di “oriundi” italiani, discendenti degli emigrati “primari”); ma, per fare dei numeri assolutamente esemplificativi e non esaustivi, dal 1825 al 1920 ben 17 milioni di inglesi lasciarono il loro Paese, e 6 milioni di tedeschi espatriarono, fra il 1820 ed il 1933, verso gli Usa, il Brasile e l’Argentina. Il fenomeno ha riguardato la maggior parte dei Paesi europei, compresi quelli dell’Europa orientale (ivi).

Ciò premesso, penso che a nessuno – a nessuno – possa essere negato il diritto di andare a cercare altrove una sorte migliore di quella che la – casuale – nascita in un posto del mondo gli riserverebbe (è quello che, in un suo memorabile libro, Stefano Rodotà ha definito “il diritto all’esistenza“; ma va anche ricordato che, insieme a quello alla vita, il “diritto alla ricerca della felicità” è esplicitamente sancito come uno dei quattro “inalienabili” nella Dichiarazione di Indipendenza degli USA).

Parto da una considerazione che a chi è di formazione tecnica risulta facilmente comprensibile, ma che è chiara per chiunque: le differenze generano flussi (ad es.: quelle di temperatura, flussi di calore; quelle di pressione, flussi di aria o di liquidi; quelle sociali, flussi di persone). E sono flussi incoercibili, come anche il secondo principio della termodinamica ci insegna”: “il calore passa spontaneamente dai corpi più caldi a quelli più freddi”. Esemplifico: se fra due zone c’è una differenza di pressione, si genera dall’una all’altra un flusso d’aria, più o meno violento (venticello, vento, vento forte, uragano: dipende dall’entità della differenza, le dimensioni del flusso aumentano con essa), che tende a stabilire una condizione di equilibrio; se si pone un ostacolo al flusso, questo cercherà una via diversa ed immancabilmente la troverà, perché la persistenza di differenze lo alimenta e sostiene finché un livellamento non viene raggiunto (ricordo anche il “principio dei vasi comunicanti“, ai quali è assimilabile l’attuale mondo “globalizzato”). Così avviene, inevitabilmente, in campo sociale: le differenze di condizione, generando “pressione sociale“, hanno sempre spinto persone e popoli a muoversi alla ricerca di equilibri diversi e migliori. Si ha voglia di mettere muri o ostacoli di qualunque tipo, quando i popoli si mettono in moto non c’è nulla che possa fermarli. L’unica cosa possibile alla quale si possa, volenti o nolenti, tendere ed acconciarvisi è perciò la gestione dei fenomeni (dato che la loro soppressione è semplicemente impossibile). Dalla consapevolezza delle motivazioni che spingono masse di persone a migrare nasce quello che Rodotà ha definito il “principio di solidarietà: un principio, non un atto di buona volontà o di generosità, che compete alle istituzioni che devono farsi carico della “produzione di solidarietà” (ancora Rodotà) con atti che rispettino i bisogni ed i diritti di chi viene e di chi già ci sta, facendo salve le esigenze della sicurezza e della legalità (nessuno ha mai sostenuto, d’altronde, che non debba essere così). Di questo è lecito, e doveroso, discutere.

E poi: come possiamo parlare di “clandestini” (un aggettivo a mio giudizio ingiusto, oltre che sgradevole, specialmente per chi non arriva nascondendosi) e di “titoli per entrare” noi occidentali, che siamo andati ad invadere e sfruttare – a partire dall’Impero Romano, dal quale noi italiani, ma anche molti altri europei, discendiamo – terre che appartenevano ad altri, derubandoli delle loro ricchezze? Da quando deve partire l’orologio della “legalità”? Da prima o dopo le colonizzazioni? Se un miliardo di persone si esprime in lingua inglese, che in molti Stati africani è la lingua ufficiale, oltre 400 milioni in spagnolo, se in una terra così lontana come il Brasile si parla portoghese non è certo per fenomeni naturali, ma è una conseguenza dei “clandestini” che, armati della loro forza, andarono a conquistare e sottomettere, imponendo anche la loro lingua, terre in cui vivevano i nativi di quei luoghi (ricordo libri di Isabel Allende e di Luis Sepùlveda sui “conquistadores” che invasero dall’Europa l’America del Sud), spesso dando luogo a fenomeni di vero e proprio genocidio oltre che di sfruttamento e di depredazione: gli “amerindi“, gli indiani di America, non sono forse stati sterminati dai colonizzatori europei che andarono nel “Nuovo mondo” per sfuggire alle condizioni in cui vivevano in Europa? Non hanno mica chiesto il permesso, prima di entrare. E vogliamo dimenticare la deportazione di decine di milioni di persone (i “negri“), veri “clandestini coatti“, che dall’Africa, fra il 1650 ed il 1850, furono deportati in venti milioni – dieci dei quali morirono lungo il tragitto (oggi si dispone di tutto, per dimostrarlo: registri, libri di bordo, ecc.) – dalla loro terra di origine dagli “scafisti” di quei tempi (soprattutto inglesi, olandesi, danesi, svedesi, francesi, portoghesi) a fare gli schiavi in America? E così gli invasori (“clandestini”) di un Continente (l’America) strapparono milioni di persone ad un altro Continente (l’Africa) per sostenere la propria crescita. Ciò che d’altronde avevano già fatto gli europei che – scriveva Montesquieu nel 1748, ironizzando sulla pigrizia dei popoli d’Europa – «avevano dovuto trarre in schiavitù gli africani, per dissodare tante terre». Non è per questo (si pensi solo alla mancata crescita demografica, nonché al depauperamento intellettuale, causati dalle deportazioni) che l’Africa, il continente forse naturalmente più ricco del mondo, vive in condizioni di povertà e degrado, che spingono masse di gente ad andare via di là? Che cos’è, se non un nuovo e ributtante colonialismo, il fenomeno del “land grabbing” (l’accaparramento di terre) messo in atto, oggi, in Africa soprattutto dai cinesi, che hanno invaso “pacificamente” intere e vaste zone, le fanno coltivare (con condizioni di terribile sfruttamento delle popolazioni locali) e portano via in Cina quanto la terra d’Africa produce? A chi dovrebbe appartenere quell’enorme ricchezza agro-alimentare che viene sottratta ai luoghi in cui viene prodotta? E vogliamo parlare del furto di materie prime di ogni tipo – minerali (anche quelli definiti “rari”: alcuni di essi si trovano quasi soltanto in Africa), petrolio, gas, ecc. (per non dire dei diamanti: ricordo il bel film di alcuni anni fa “Blood Diamond”, con Leonardo Di Caprio e l’incantevole Jennifer Connelly) – di cui da secoli l’Occidente è responsabile nei confronti dell’Africa che è stata derubata depredata impoverita? Ed ora vorremmo pure – non ci basta proprio mai! – che quelli che sono poveri per colpa dell’Occidente se ne stessero zitti e buoni e non andassero a dar fastidio a coloro che li hanno messi in quelle condizioni? Altro che “aiutarli a casa loro“: bisogna anzitutto smettere di derubarli a casa loro ed anche riconoscere di dover restituire almeno una parte delle immense ricchezze che abbiamo loro sottratto! Il PIL del mondo vale circa 65.000 miliardi di dollari (anche grazie a quello che è stato e continua ad essere trafugato dall’Africa), l’ONU ha calcolato da tempo che basterebbero 100 miliardi per eliminare dal mondo la povertà e la fame: ne vogliamo parlare nei luoghi adatti, invece di fare falsa demagogia e di attizzare odio sociale? Dove sono iniziative in tal senso? Molte occasioni sono state perse: ma è su questa strada che occorre muoversi, e bisogna farlo presto.

Molto altro ci sarebbe da dire: ma penso che già questo basti a chiarire perché penso che il torto non è di coloro che vogliono venire in Europa perché nella loro terra non riescono a vivere, ma è dell’Europa che, nei secoli, ha ridotto quel Continente nelle condizioni in cui si trova, perciò di fatto costringendo i suoi abitanti ad andare altrove. I “clandestini” siamo (stati) noi occidentali, ora è tempo di rifare un po’ i conti: capisco che il momento di pagare, di restituire una parte almeno del “maltolto” possa risultare sgradevole (“per pagare e morire c’è sempre tempo”, si dice dalle mie parti), ma bisogna riconoscere la realtà delle cose ed adoperarsi per un grande progetto di civiltà e giustizia, per quanto tardiva. L’alternativa può essere devastante per tutti: a molti pare che sfugga. Perciò, se non per motivi di giustizia, bisognerebbe farlo almeno per evitare guai peggiori  (l’esasperazione di chi non ha più nulla da perdere, se anche la vita sua e dei suoi figli non vale nulla): il terrorismo che sconvolge le nostre vite pesca anche in questo.

E’ del tutto evidente, per tornare ai problemi che ci riguardano direttamente, che l’Italia non può farsi carico da sola di un problema così vasto e complesso: è per questo che Stefano Rodotà scriveva, già nel 2014, che «Diviene così evidente l’inadeguatezza di politiche chiuse nei confini nazionali… che devono essere superati anche per consentire politiche redistributive delle risorse necessarie per l’accoglienza dei migranti». Peccato, nel 2014 il Presidente del Consiglio dell’Unione Europea era italiano, era Matteo Renzi: avrebbe potuto sfruttare il suo ruolo per portare quella così importante questione ai massimi livelli dell’UE, ma non lo fece. Una delle più favorevoli occasioni che l’Italia abbia perso.

Franco Bianco

Franco Bianco è un “osservatore politico”, ha scritto per lunghi anni su Aprileonline e su Paneacqua; per la campagna referendaria ha scritto su Patria Indipendente, il mensile dell’ANPI nazional.