Intervista a Francesco Gesualdi, coautore di Società del benessere comune, edito da Arianna Editrice.

 

Il libro che hai prodotto assieme a Gianluca Ferrara giunge alla conclusione che solo organizzando un sistema su basi totalmente nuove, di tipo non mercantile, è possibile salvare questo pianeta e questa umanità. Ma ricostruisce anche le tappe attraverso le quali si è giunti alla situazione attuale. Puoi sintetizzarle per sommi capi?

Ci siamo spesso illusi di poter addomesticare questo sistema e a tratti abbiamo pure avuto l’impressione di avercela fatta. Magari nel trentennio post-bellico del secolo scorso, quando anche i padroni del capitale erano convinti dell’utilità di distribuire meglio la ricchezza e di vivere sotto la guida di governi che pilotavano l’economia e garantivano alti livelli di sicurezza sociale. La bassa disoccupazione dava forza ai sindacati che strappavano continui aumenti salariali, mentre il vento in poppa della crescita consentiva ai governi di destinare quote crescenti di ricchezza alle spese sociali. Ma arrivò il tempo in cui i padroni del capitale dissero basta e la scena politica venne conquistata da Thatcher e Reagan che inaugurarono l’era del neoliberismo. Demolito il sindacato e svuotato lo stato di funzione sociale e potere economico, la legge del mercato ha iniziato a sventolare come unico vessillo. Ne è venuta fuori la società del male comune  caratterizzata da una ricchezza sempre più maldistribuita, il potere economico sempre più concentrato nelle mani di pochi, il debito come pratica sempre più diffusa. Intanto la crescita, perseguita a livello globale, ha avvantaggiato solo poche élites, aggiungendo all’esercito degli scartati quello degli sfruttati e dei precari. E sullo sfondo delle macerie sociali, la disfatta del pianeta come testimoniano l’assottigliarsi delle risorse e l’accumulo dei rifiuti.

L’insostenibilità e la crudeltà di questo sistema sono sotto gli occhi di tutti, eppure non si vede comparire all’orizzonte una vera opposizione. Anzi le forze più reazionarie sembrano rialzare la testa.

La legge del mercato ha conquistato la mente di molti e non c’è da stupirsi se l’atteggiamento di tanti è la rassegnazione. Per quanto spiacevoli, certi aspetti sono ormai considerati parte integrante della  vita e come è inutile arrabbiarsi col vento o con la grandine, allo stesso modo è inutile ribellarsi alla disoccupazione, alla precarietà, all’incertezza. Tutt’al più si può cercare di guadagnarsi un buon posto lottando con tenacia nella battaglia quotidiana del tutti contro tutti. Una logica ampiamente assorbita dalla quasi totalità dello schieramento parlamentare che ritiene di non avere nient’altro da fare se non creare un contesto attraente per le imprese affinché tornino a creare opportunità di lavoro non importa a quali condizioni salariali e quale livello di diritti. Di qui il Job’s act, le riduzioni fiscali, le sovvenzioni alle imprese. E rimanendo in una logica altrettanto mercantilista ecco l’arrivo dei partiti nazionalisti che gettando la colpa di tutti i mali sull’esterno, offrono come soluzione i muri per impedire l’ingresso agli stranieri e gli eserciti per conquistarsi le risorse e i mercati altrui. Due proposte, quella liberista e quella protezionista, identiche nello spirito, ma diverse nei modi. Entrambi difendono la posizione dei più forti, senza nessun rispetto per le persone, né per l’ambiente; ma mentre i liberisti concepiscono il mondo  come un’arena popolata esclusivamente da imprese che indipendentemente dalla nazionalità gareggiano fra loro per la conquista del mercato mondiale, i protezionisti concepiscono il mondo ancora come economie nazionali autorizzate a usare qualsiasi mezzo pur di vincere. Personalmente li condanno entrambi e rivendico il diritto a lottare per un’altra economia mondiale fondata sul rispetto, sull’equità e sulla solidarietà per il riconoscimento dei diritti di tutti.

Ti pare che questa posizione sia condivisa anche da altri?

Fortunatamente c’è chi ha mantenuto capacità critica, ma con comportamenti opposti. Da una parte ci sono gli olistici che, particolarmente attenti ai temi della qualità della vita e dell’ambiente, si concentrano su ciò che possono fare a livello individuale e locale, ignorando, o quasi, la dimensione di sistema. All’opposto ci sono i militanti vecchia maniera che con uno spiccato senso della politica si occupano  prevalentemente delle grandi tematiche di sistema, ma spesso in maniera zoppa. Nel senso che si occupano della distribuzione della ricchezza, dei rapporti di potere e dei temi sociali, ma dimenticano quelli ambientali e della qualità della vita.

A tuo avviso quale atteggiamento serve per contribuire efficacemente al cambiamento?

Per le problematiche che oggi ci stanno di fronte, sarebbe oltre modo necessario un altro tipo di cittadinanza capace di fondere la dimensione individuale con quella di sistema, quella sociale con quella ambientale, quella sperimentale con quella rivendicativa. In altre parole servirebbe un impegno multidirezionale in un pensiero complessivo. Spesso si cade in contraddizione perché ci si occupa di aspetti specifici senza metterli in relazione fra loro. Ormai, tutti lo sanno, la crisi del pianeta associata alla necessità di quattro miliardi di esseri umani di raggiungere livelli di vita più dignitosi, impongono ai paesi ad alto reddito pro-capite di confrontarsi col senso del limite. Detta in un altro modo non ci sono più gli spazi per crescere e ciò preoccupa in particolare i progressisti perché in questo sistema la fine della crescita rende più difficile la lotta per l’uguaglianza e mette a repentaglio il lavoro salariato, ad oggi l’unica via a disposizione dei più per procurarsi da vivere. Il che ci obbliga a una doppia sfida: l’una immediata, l’altra di lungo periodo. Quella immediata per ottenere correttivi di sistema capaci di attenuare subito i danni per i più deboli. Quella di lungo periodo per dotarci di un altro progetto di società che abbia come fine quello di garantire a tutti una vita degna senza crescita di consumi e produzione. Una sfida, quest’ultima, particolarmente difficile perché ci obbliga a rimettere tutto in discussione: gli stili di vita, la concezione del lavoro, il ruolo del mercato, l’organizzazione dell’economia pubblica. Ma dobbiamo prendere coscienza che senza un progetto di società non è possibile neanche la politica del giorno per giorno perché abbiamo capito che dentro le logiche di sistema i problemi non si risolvono, bensì si aggravano. In altre parole solo applicando criteri alternativi, ispirati a senso di solidarietà e sostenibilità, potremo trovare soluzioni immediate. Per riuscirci, però, dobbiamo cominciare a chiederci quale economia, per chi e per che cosa, vogliamo organizzarla. Il libro che ho scritto con Gianluca Ferrara offre nuove risposte a questi interrogativi.