Sebbene l’attenzione degli osservatori “occidentali” si sia concentrata pressoché esclusivamente sul risultato, peraltro inquietante nelle sue implicazioni, del primo turno delle presidenziali austriache, dove l’estrema destra dell’FPÖ, quella che fu di Jörg Haider e del mito alpino delle piccole patrie, raggiunge un ragguardevole 36%, quella di domenica 24 aprile è stata giornata elettorale, e delle più importanti, anche sul limes orientale. L’election day della Serbia, in cui si votava non solo per il rinnovo del parlamento ma anche per alcuni municipi, tra cui la capitale Belgrado e altre città (tra cui Zaječar, Arandjelovac, Vrbas, Medvedja, Negotin), ha riservato, pur in quadro di forte continuità e sostanziali conferme, alcune interessanti sorprese.

Più che scontata la conferma della vittoria del SNS (il Partito Progressista Serbo) che, a dispetto del nome, è un partito di centro-destra, conservatore e neo-liberale, prodotto da una scissione “centrista” dal Partito Radicale Serbo di Vojislav Šešelj, che tuttavia non riesce in uno degli intenti dichiarati alla vigilia, vale a dire superare il risultato, già impressionante, ottenuto nelle elezioni del 2014, “fermandosi” intorno al 48% dei voti, risultato, quest’ultimo, come gli altri che saranno riportati a seguire, a valere del 95% dei seggi effettivamente scrutinati. Si tratta, per il premier in carica e riconfermato, Aleksander Vučić, indubbiamente di un successo, di certo non corrispondente alle aspettative (alcuni sondaggi pronosticavano addirittura la maggioranza assoluta del consenso elettorale), ma che lo conferma come asse degli equilibri politici della Serbia odierna, in grado (le proiezioni accreditano 130-140 seggi su 250) di formare un governo monocolore.

Ancora più significativa – e densa di implicazioni – del risultato del SNS, è la novità rappresentata da una inedita frammentazione del quadro politico che emerge dalla tornata elettorale: non solo per l’alto numero (venti) di liste elettorali presentatesi al giudizio elettorale, ma anche per la bagarre tra gli altri partiti che riescono ad entrare in parlamento, superando la soglia di sbarramento del 5%, che si attestano quasi tutti su percentuali tra il 5% e il 10%, confermando, quindi, la grande distanza che le separa dal partito egemone.

Se, per un verso, trova conferma la collocazione del SPS (il Partito Socialista Serbo) del ministro degli esteri uscente, Ivica Dačić, al secondo posto per consensi elettorali, pur registrando un significativo calo, che lo porta dal 14% all’11% dei voti e che dovrebbe assicurargli qualcosa come 30-40 seggi in parlamento, il dato politicamente più significativo della tornata è la clamorosa avanzata della destra estrema, quella più radicale, con l’SRS (il Partito Radicale Serbo) di Vojislav Šešelj che si attesta all’8% (dal precedente 2%) e circa 20 seggi in parlamento, e con l’altra coalizione dell’ultra-destra, tradizionalista e nazionalitaria, di Dveri e DSS (il Partito Democratico Serbo), che “rischia” di superare lo sbarramento del 5% e di conquistare una dozzina di seggi in parlamento. Il segno che, tra destre “presentabili”, conservatrici e filo-europee, da una parte, e destre “radicali”, estremiste e nazionaliste, dall’altro, vota a destra oggi più del 60% dell’elettorato serbo.

Insistono su questo scenario, ovviamente, molti fattori: se, per un verso, la recente assoluzione di Vojislav Šešelj al Tribunale Penale Internazionale all’Aja, presso il quale era stato incriminato per incitamento all’odio nazionale e per il sostegno a crimini di guerra in Croazia e Bosnia Erzegovina, può avere avuto un effetto catalizzatore, se non altro in termini emotivi e per il modo come quella sentenza è stata “cavalcata” dalle forze dell’ultra-destra nel pieno della campagna elettorale; per un altro, il successo di queste formazioni, in buona parte anti-europee e neo-corporative, unito alla inedita affermazione di un movimento connotato da tratti demagogici e protestatari come “Dosta je Bilo” (Ora Basta) che pure supera la soglia del 5% e potrebbe conquistare la sua pattuglia di una quindicina di parlamentari, è la spia di una disillusione crescente e di un malessere diffuso, sia, in generale, verso una politica “ufficiale” che appare sempre più separata e distante, sia, nello specifico, verso l’indirizzo politico dominante, che ha indicato nell’apertura europeista, nel programma di adesione alla UE e persino nell’incontro con l’Occidente e il rafforzamento della partnership con l’Alleanza Atlantica, il proprio traguardo strategico. Basti ricordare, a conferma, i risultati di un recente sondaggio di opinione (8 aprile), nel quale il 72% dei serbi si è detto contrario all’adesione della Serbia a UE e NATO, mentre il 55% si è espresso a favore del consolidamento dello storico rapporto tra Serbia e Russia.

All’indomani della dolorosa ricorrenza, 24 Marzo, dell’aggressione della NATO contro la Jugoslavia e dei bombardamenti contro Belgrado e le altre città della Serbia, si è tenuta a Belgrado, lo scorso 27 Marzo, a meno di un mese dal voto, un’altra manifestazione di protesta, con migliaia di serbi scesi in piazza a Belgrado contro la NATO e contro il rinnovo del partenariato del Paese, che ha tuttavia confermato la propria neutralità militare e la propria intenzione di non aderire alla NATO, con l’Alleanza Atlantica. Sullo sfondo, ovviamente, la vicenda del Kosovo, la regione meridionale autoproclamatasi indipendente, con la quale prosegue, tra mille difficoltà e con alterne vicende, il dialogo bilaterale mediato dalla Unione Europea, sulla falsariga, sempre più delicata e controversa, degli accordi di Bruxelles del 19 aprile 2013. Appena tre anni fa. Specchio rifrangente dell’odierna Europa, la Serbia si conferma punto di snodo, nella regione e nel continente.