Tra i tanti commenti seguiti alla morte di Giulio Regeni, appare degno di nota quello dell’ex ambasciatore Sergio Romano sul Corriere della Sera. Il commento può essere riassunto in una frase: «Piaccia o no, l’Egitto in questo momento è un alleato, non un nemico».

Romano esprime bene un problema poco considerato, ma alla lunga vitale. Si chiede a gran voce da anni un ricambio in tutti i settori, dai politici agli insegnanti. Stranamente, si ignora il mondo diplomatico. La politica estera italiana è vecchia e pericolosamente inefficace, in particolare in alcune aree cruciali come il Medio Oriente e l’Africa.

La ricetta italiana è sempre uguale: sostenere regimi forti che blocchino i flussi migratori, combattano i nemici di turno (oggi l’Is) e garantiscano sontuosi contratti alle aziende italiane. Specie quelle del settore idrocarburi e costruzioni.

In Nigeria, Arabia Saudita e ovviamente Egitto meglio un uomo forte amico che una transizione democratica. Il caso Regeni non è una battaglia di verità, ma un contrattempo che può mettere in crisi i rapporti con un paese “vicino”.

Le primavere arabe, per questa diplomazia che vive di paure e consuetudini, sono state più un percorso verso l’ignoto che una grande opportunità. Con l’eccezione della Tunisia, si torna a un vecchio mondo di realismo, alzate di spalle e strette di mano di militari e re. Un ragazzo torturato e ucciso è un elemento troppo piccolo per scuotere una pigrizia sedimentata da decenni.

Antonello Mangano

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