Parigi, 1 dicembre 2015 – L’ultima chiamata, l’ultima spiaggia, l’ultima occasione… “la posta in gioco è troppo importante per potersi accontentare di un accordo al ribasso“, “è una sfida che non dobbiamo perdere“, “un’occasione politica unica che potrebbe non tornare“, “possiamo cambiare il futuro qui e adesso“,”bisogna agire ora, mettendo da parte gli interessi di breve termine“, “siamo l’ultima generazione a poter salvare il pianeta”  (no, non il pianeta, ma gli uomini). I leader mondiali hanno detto, ribadito, sottolineato. Sanno parlare, anche per questo sono diventati leader mondiali.  Le loro dichiarazioni all’apertura di COP21, ieri, sono state confortanti, anche se oggi sui giornali italiani erano tutte in taglio basso: sarà perché ci credono in pochi ad un accordo vincente per i cambiamenti climatici globali?

Ieri erano tutti a Le Bourget, nell’area blindatissima vicino all’aeroporto dove si svolge la conferenza mondiale sul climate change per mettere sul piatto le loro promesse. Promesse ancora insufficienti a fermare sotto i 2° l’avanzata del riscaldamento globale.

Vediamo in sintesi, una ad una, alcuni punti di partenza.

L’Ue, che non brilla in generale, promette complessivamente un taglio del 40% per il 2030 (meglio di tanti altri). Danimarca e Svezia sono avanti. Vogliono abolire in tempi brevi il contributo delle fonti fossili alla produzione elettrica. La Germania, invece, pur con l’impegno dichiarato dalla Merkel di ridurre, come tutta l’Ue, del 40% rispetto al 1990 le emissioni entro il 2030, avrebbe tutte le carte in regola per fare un salto in avanti verso le rinnovabili. Ma non è detto che lo faccia, non ha promesso di farlo. L’industria pesante e il carbone contano ancora troppo. L’Italia: Renzi va orgoglioso del “suo” 16% già raggiunto di riduzione rispetto al 1990. Non dovrebbe: non è merito certo della sua politica energetica a colpi di trivellazioni.

Un po’ più in là, la Russia di Putin, quella che afferma che il cambiamento climatico è la sfida più coraggiosa da intraprendere, non ha un grande coraggio. Putin dichiara che ha giù ridotto del 33,4% le emissioni e che vuole ridurle ulteriormente di un altro 13,5% entro il 2020. Parole che non convincono le associazioni del Climate Equity Reference Project dubbiose sul metodo di calcolo che attribuisce troppo potenziale alla capacità di assorbimento delle foreste.

Oltreoceano, gli USA. Obama promette di ridurre le emissioni di gas serra entro il 2030 del 26-28 per cento rispetto ai valori registrati nel 2005. Ad agosto aveva promesso, presentando il Clean Power Plan, una riduzione del 32% entro il 2030 delle emissioni relative al settore della produzione elettrica, rispetto ai livelli di emissione del 2005. Come hanno scritto alcuni esperti del settore e giornalisti ambientali (qui e qui e qui ad esempio), la riduzione prevista in realtà corrisponde ad una riduzione effettiva entro il 2030 delle emissioni totali USA del 10% rispetto alle emissioni totali USA del 2005 (perché nel piano viene considerato solo il settore elettrico) e ad un aumento entro il 2030 delle emissioni totali degli USA di circa il 4% rispetto ai livelli delle emissioni USA del 1990. Perché il presidente Obama ha spostato l’anno di riferimento al 2005 invece che al 1990, come prassi di UNFCCC e Nazioni Unite? Buone le intenzioni, è vero, ma insufficienti le riduzioni rispetto al 2005. E’ vero che è stato proprio Obama a dare il via ad un sistema più virtuoso e che negli ultimi due anni la tendenza alla riduzione si è accelerata. Tutto questo, inoltre, è stato fatto nonostante il veto del parlamento a maggioranza repubblicana. Ma non basta all’umanità.

Ancora peggio, l’Australia, che da Kyoto a Doha (2012) ha ridotto solo dello 0,5%. Ora promette di ratificare il secondo periodo del protocollo di Kyoto e di stanziare un miliardo di dollari per soluzioni di resilienza ai cambiamenti climatici e per la riduzione delle emissioni.

Quanto al Canada, stesso giochino sullo date: 30% in meno rispetto al 2005, che equivale al 2% rispetto al 1990. E niente più.

La Cina. Altro che riduzioni: secondo gli esperti, di fatto, aumenterà le sue emissioni fino al 2020, o al 2025 o forse persino al 2030, a seconda del grado di ottimismo. Gianni Silvestrini, ad esempio, fa intendere che la Cina potrebbe invece prepararsi ad una riduzione anticipata (rispetto al 2030), così da poter dire poi di sé quanto è stato bravo il suo governo. Certo è che promesse di riduzione dell’ “intensità di emissioni” (un calcolo non assoluto ma specifico, relativo cioè rispetto alla quantità delle produzioni) del 60-65% rispetto al 2005, quella di aumentare l’energia non fossile fino ad arrivare ad un 20% del totale, e di aumentare infine le proprie foreste, non è certo un grande sforzo.

Anche l’India non intende troppe ragioni. Non parla affatto di tagli di emissioni, ma di miglioramento dell’efficienza energetica e, anche lei come la Cina, di “intensità di emissioni” ridotte del 33-35% entro il 2030. Un piatto davvero magro, condito di un aumento di rinnovabili (fino al 40% dell’energia totale), e di un po’ più di foreste. Ma al carbone non vuole rinunciare affatto.

Facciamo un po’ di conti. Anzi, li fa Climate action tracker proprio oggi. E scrive: “Se fossero state costruite tutte le centrali a carbone in cantiere, entro il 2030 solo le loro emissioni sarebbero state del 400% superiori a quelle che dovremmo avere per restare sotto i 2° C. Ma se anche non ne costruissimo più neppure una, nel 2030 le emissioni dalle centrali a carbone sarebbero ancora oltre il 150% superiori rispetto a quelle previste per restare sotto i 2°”.  E in programma comunque ce ne sono: “Otto paesi prevedono di costruire più di 5GW: Cina, India, Indonesia, Giappone, Sud Africa, Corea del Sud, Filippine, Turchia – così come la EU. In sette dei nove paesi studiati – Cina, EU28, India, Giappone, Corea del Sud, Filippine, Turchia – le centrali a carbone previste minacciano seriamente il percorso di riduzione delle emissioni”.

L’articolo originale può essere letto qui