Quale Kosovo si avvia a chiudere il 2015 e inaugurare un ormai prossimo, e speriamo diverso e ben più promettente, 2016? Un Kosovo che ci sta a cuore, anzitutto, anche per l’impegno che, con i partner kosovari, abbiamo condiviso con il progetto PULSAR e per i Corpi Civili di Pace, un impegno che punta a ricostruire convivenza ricomponendo le faglie della separazione etnica che la guerra della NATO (1999) e il successivo, lunghissimo e perdurante dopo-guerra, hanno approfondito. Un Kosovo che sembra oggi, in poche parole, sfiduciato ed impaurito: in cui avanza una inedita sindrome da accerchiamento e sempre più intensamente morde lo spettro della crisi, della povertà e della disoccupazione, accompagnati da una diffusa criminalità e da una dilagante corruzione. C’è solo questo, in Kosovo, oggi? No, certo: non c’è solo questo; a questo, si contrappone una società civile e un panorama giovanile sempre più aperto e intraprendente, insieme con una scena culturale alternativa che, sebbene ancora in buona parte al limite dell’underground, pur tuttavia non manca di muovere passi, nuovi e diversi, per reclamare i propri spazi e rivendicare la propria autonomia.

 

Tuttavia, insieme con questi potenziali positivi, è sui fattori negativi che è necessario soffermare l’attenzione: quella miscela di scoraggiamento e incertezza, di frustrazione e timore, che si avverte, sia nei racconti dei giovani kosovari, sia tra le righe delle dichiarazioni ufficiali e dei commenti a margine, può diventare una miscela esplosiva, fare da detonatore al conflitto e fornire propellente alla radicalizzazione. Alcuni segnali meritano di essere passati in rassegna, “in ordine cronologico inverso”. Nel suo discorso al Parlamento (17 Dicembre) la presidentessa della autoproclamata repubblica ha invitato i partiti a riprendere un “dialogo costruttivo” per il “futuro del Paese”, ad abbandonare la strada della violenza e a garantire la “sicurezza dei cittadini”, in particolare, attraverso la “stabilità politica”. Neanche tre giorni prima, il leader di uno dei partiti dell’opposizione (Fatmir Limaj, di “Nisma”) aveva minacciato di voler impedire al parlamento di “rendersi complice” degli errori del governo, giustificando così quanto ripetutamente avvenuto, nelle ultime settimane, all’interno del parlamento kosovaro: lancio di lacrimogeni e violenza per impedire il confronto parlamentare. Più precisamente: sei volte, nel giro degli ultimi due mesi, le opposizioni kosovare hanno fatto ricorso a questa forma di “ostruzionismo” per impedire al parlamento di discutere, soprattutto, due punti oggi al centro dell’agenda politico-istituzionale kosovara: l’acccordo con Belgrado e i confini con il Montenegro.

 

Ma è veramente questo il nodo del contendere? Secondo gli ultimi dati disponibili (I-Economics), la disoccupazione è, in media, al 30% (oltre 270 mila disoccupati, su una popolazione totale che non supera i due milioni), con un contrasto città-campagna e una sperequazione di genere preoccupanti, che portano la disoccupazione giovanile ben oltre il 40% e quella femminile ben oltre il 50%; uno stipendio medio che continua a languire sotto i 300 euro mensili ed una incidenza del lavoro irregolare, nero e grigio, ancora drammatica; infine, uno squilibrio commerciale grave, 160 milioni di export nel primo semestre 2015, a fronte di un import, nello stesso periodo, di 1.20 miliardi. A conferma della estrema fragilità della struttura kosovara si tratta di un dato pesante anche sotto il profilo qualitativo, se è vero che il Kosovo esporta soprattutto prodotti agricoli e a basso valore (i semplici metalli comuni pesano per oltre il 60% del volume complessivo delle esportazioni) mentre importa praticamente tutto il resto, anche i prodotti agricoli, sebbene il settore agricolo continui a costituire, anche se talvolta sulla scala della mera sussistenza, la voce principale. A parte l’economia “sommersa”, che continua a pesare per almeno un terzo dell’intera economia kosovara.

 

Lo scenario del Kosovo odierno non è dunque, purtroppo, promettente: l’estrema fragilità economica alimenta – con la corruzione e la criminalità – povertà e radicalizzazione; l’altrettanto grave instabilità istituzionale sembra essere il presupposto, più che l’effetto, degli attriti che si stanno moltiplicando sul versante politico, e che coinvolgono direttamente i due paesi limitrofi, la Serbia, della quale pure il Kosovo fa parte ai sensi della risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza, e il Montenegro, che invece lo ha riconosciuto, tra le proteste popolari, come “Stato”. Le manifestazioni che ripetutamente, nel corso degli ultimi due mesi, hanno occupato le strade e le piazze del capoluogo, Pristina, e dominato la scena pubblica kosovara, accompagnate dalle violenze dei parlamentari della opposizione, hanno letteralmente sfigurato l’ordinaria dialettica politica kosovara: dieci leader dell’opposizione sono finiti in galera e, sotto la pressione della violenza di piazza, la stessa presidentessa della autoproclamata repubblica ha sollevato la questione di costituzionalità degli accordi con Belgrado presso la corte costituzionale del Kosovo che ha, come era facile prevedere, accolto la richiesta e sospeso l’applicazione degli accordi fino al prossimo 12 gennaio 2016. Sebbene le opposizioni ultra-nazionaliste (Vetenvendosje ed AAK, in primo luogo) vedano quegli accordi come il fumo negli occhi, essi rappresentano, secondo la maggior parte degli analisti, una mediazione praticabile che, pur sancendo l’integrità dei confini kosovari, garantisce alla minoranza serba, ampiamente ghettizzata nel Kosovo odierno, autonomia nei campi della scuola, della sanità, del welfare, delle infrastrutture e dello sviluppo locale. Non è forse un episodio che, contemporaneamente, siano ripresi gli attacchi e le intimidazioni contro la minoranza serba ad opera di estremisti albanesi: il 7 dicembre, a Gorazdevac e Srbobran, si sono verificate intimidazioni armate contro case, negozie ed auto dei villaggi serbi, ennesima minaccia alle prospettive della convivenza.

 

Come ha riferito Johannes Hahn, commissario europeo all’allargamento, “in un paese democratico ci si scambiano pensieri e parole, non intimidazioni e violenza”. Coltiviamo l’ottimismo della volontà: che il 2016 veda nascere, allora, un Kosovo autentico e inclusivo, finalmente per tutti e di tutti i popoli che lo abitano.