di Marinella Correggia

Nell’agenda della COP21 che si apre oggi (il 30 novembre, ndr) a Parigi non si parlerà di armi, perché il complesso militar-industriale -compresi i conflitti in cui gli apparati vengono utilizzati- sono esentati dagli obblighi di rendicontazione e riduzione delle emissioni. Il solo Pentagono sarebbe il principale produttore istituzionale di gas serra al mondo, con oltre il 5% del totale.

 

Quanto carburante fossile ha consumato il 3 ottobre 2015 l’aereo AC-130 della United States Air Force per i 45 minuti di bombardamenti sull’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz (Afghanistan) che hanno fatto molte vittime civili nel quadro della missione Nato (e dunque anche per conto dell’Italia)? Quante emissioni di CO2 e degli altri gas serra provocano le guerre in corso soprattutto in Medioriente? Quanti gas climalteranti emette un carrarmato per avanzare di un chilometro compattando rovinosamente il suolo? Si può calcolare l’impronta climatica globale degli scarponi militari?
Fa osservare Mike Berners-Lee, direttore di Small World Consulting e autore di How Bad are Bananas? The Carbon Footprint of Everything: “I costi umani diretti delle guerre sono così tragici che pensare agli impatti ambientali e climatici pare quasi frivolo o insolente. Ma le moderne forze armate e le loro operazioni belliche sono voraci divoratrici di energia ed emettendo carbonio riscaldano il clima, condannando gli umani anche oltre e dopo la fase della guerra”.
“Il settore militare non solo inquina ma contamina, trasfigura, rade al suolo. Scrivendo il mio libro mi sono accorto che il destino della Terra e del mondo è nelle mani delle armi. Un concetto impressionante”, ha scritto il saggista Barry Sanders, autore di Green Zone. The environmental costs of militarism (2009).

Non sono certo bruscolini le emissioni climalteranti riconducibili ai sistemi d’arma, agli eserciti, alle loro basi e apparati, agli aerei, alle navi, ai carri armati, alle guerre che ne sono l’acme. In assenza di calcoli globali istituzionali, qualche anno fa la rete ecologista internazionale Friends of the Earth stimò che per minacciare e fare la guerra di terra, di cielo e di mare, in media si provocava l’emissione di due miliardi di tonnellate di CO2 equivalente all’anno. Al tempo della stima, nel 2005, si trattava del 5% delle emissioni annuali mondiali, per tutti i Paesi e i settori. Se si vuole contenere l’aumento della temperatura terrestre in due gradi (e sono già troppi), è necessario non superare il “budget residuo di anidride carbonica”, pari a sole 825 giga-tonnellate fra il 2011 e il 2050, come ricorda il recente rapporto Demilitarization for Deep Decarbonization (settembre 2014) dell’International Peace Bureau (Ipb), una federazione fondata nel 1892, che è perentorio: “Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di comunità resilienti. Le spese militari rubano alla comunità internazionale i fondi di cui ha disperatamente bisogno per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica”.

Nell’ambito delle attività militari, fra le più energivore del pianeta, il complesso militar-industriale statunitense, riassumibile nel Pentagono, è ovviamente l’imputato principale. Solo 35 Paesi consumano più energia di quest’entità, che secondo Barry Sanders è il principale produttore istituzionale di gas serra al mondo: oltre il 5% del totale. Ma la percentuale sarebbe molto più alta, se si comprendessero i costi energetici di produzione delle armi, il consumo di combustibili fossili e di materiali da parte dei privati contractors e infine l’enorme peso della ricostruzione di quanto distrutto dalle guerre.
Il Pentagono è anche “una ragnatela di 1.000 basi, un arco nero dalle Ande al Nordafrica, dal Medioriente all’Indonesia, ricalcando la distribuzione delle principali risorse fossili, e delle rotte commerciali. E con le sue guerre, come quella all’Iraq, che annualmente è stata responsabile di una quantità di emissioni maggiore di quelle che 139 Paesi al mondo producono per vivere»” spiega Patricia Hynes in un articolo su Truthout.
Senza fare il minimo mea culpa, il Dipartimento Usa alla Difesa sia nel 2004 che di recente ha sottolineato come i cambiamenti climatici siano per la sicurezza nazionale un “fattore di vulnerabilità molto importante, suscettibile di aumentare frequenza, scala di grandezza e complessità delle future missioni”. Quali? Per esempio trattenere i migranti climatici che nel 2050 potrebbero essere 200 milioni?

Ma la stranezza è che del rapporto armi, guerre e clima non si parla mai ai negoziati al capezzale dell’atmosfera. Dice Ben Cramer, docente, giornalista e autore del libro Guerre et paix…et écologie: “È un tabù rispettato dalla maggior parte degli attori, perfino dalle ong. Si ignora questo 10%, per non parlare di chi minimizza come di recente ha fatto un consigliere top del presidente Hollande, che ospiterà la prossima conferenza COP21 dell’Onu. Là, gli esperti militari saranno presenti in forze. Ma ci saremo anche noi, per sollevare nuovamente la questione”. La questione? “Sì: l’esenzione del settore militare dall’obbligo di rendicontare le sue emissioni e di ridurle”. Già: manco si trattasse di madre Teresa di Calcutta, della Croce rossa o di altri benefattori. Spiega sempre il rapporto “Demilitarization for Deep Decarbonization”: “La maggior parte dei consumi di combustibili fossili e le relative emissioni sono escluse dagli obblighi di riduzione. Negli inventari nazionali è riportato solo il carburante usato in patria. Questa esenzione deriva dall’intensa lobby statunitense durante i negoziati per il Protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni climalteranti, alla metà degli anni 1990. Per ottenere la ratifica da parte degli Usa, la comunità internazionale accettò il ricatto: escludere l’obbligo di riduzione delle emissioni legate al settore militare”. Si noti che poi il presidente George Bush negò la ratifica del Protocollo. Ma l’esenzione per i bombardieri è rimasta.
Non solo. Sempre l’Ipb rileva che “non si parla delle eccessive spese militari come possibile fonte di finanziamento del Fondo Onu per il clima”. Totale condono per un settore ad alta intensità di emissioni climalteranti e dal pesante impatto sull’ambiente, nonché mortale per le persone.
Ecco perché i calcoli sulle emissioni del Pentagono sono stime. L’apparato non è tenuto a dichiarare nulla.
“Le emissioni del settore militare e delle guerre sono in effetti una questione importante eppure esclusa dalla Convenzione Onu sui cambiamenti climatici” ci conferma Chris Doebbler, giurista internazionale e attivista per la pace. Anche l’ultimo World Energy Statistics dell’International Energy Agency conferma che il mega-settore militare è escluso dal conteggio dei consumi di carburante nelle categorie del bunkeraggio marino internazionale e dei trasporti in tutti i Paesi.
Maggie Zhou, scienziata climatica alla quale le proteste contro il nesso guerra e clima valsero nel 2010 l’esclusione dai negoziati, sottolinea “lo scarto da cento a uno fra le spese Usa per la ‘Difesa’ e gli stanziamenti in favore del clima da parte di tutti i Paesi Ocse”.
Spiega l’appello “Stop the Wars, Stop the Warming” del luglio 2014: “È un infernale circolo vizioso, l’uso esorbitante di petrolio da parte del settore militare statunitense per condurre guerre per il petrolio e le risorse, guerre che rilasciano gas climalteranti e provocano il riscaldamento globale. È tempo di spezzare questo circolo: farla finita non solo con le guerre per il petrolio, ma con l’uso di petrolio per fare le guerre”.

 

 

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