E’ presente in alcuni settori della sinistra la tendenza a sostenere alcune tesi non proprie della sinistra. Queste tesi sono così riassumibili:

  • a) Le religioni non sono un male, ma anzi vanno difese in quanto rappresentano un’opposizione al capitalismo e alla società del mercato senza valori.
  • b) La famiglia, tradizionalmente intesa (monogamica ed eterosessuale) è un’istituzione anch’essa da difendere, essendo portatrice di valori; il capitalismo tende a dissolverla, perché la considera un ostacolo alla sua affermazione.

Queste due tesi sono state sostenute da alcuni “marxisti” (in realtà come vedremo marxisti non sono, o per lo meno questa non è una posizione marxista) come Fusaro. Tuttavia sono assai discutibili, sia da un punto di vista generale che sulla base di un’analisi di tipo marxiano.

  • a) Che le religioni si oppongano al capitalismo e che il capitalismo si opponga alle religioni sono assunti tutti da dimostrare. Ma mi pare che si tratti di un compito insormontabile, perché vorrebbe dire andare contro l’esperienza empirica.

Capitalismo e religione sono tutt’altro che nemici. Lo sapeva bene Max Weber, quando scriveva “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” dove sosteneva che l’affermazione del capitalismo ha potuto giovarsi proprio della morale cristiano-protestante (al di là della forzatura ideologica che ne faceva Weber quando asseriva che questa morale fosse un fattore indispensabile e che essa, più che processi di tipo economico e materiale, fosse alla base del trionfo del capitalismo). La religione protestante, diceva Weber, si sposa perfettamente con quelle che sono le esigenze del capitalista; l’etica del lavoro, in particolare, il disprezzo dell’ozio e la massimizzazione dello sforzo individuale e del tempo.

Ma non fu soltanto il protestantesimo a stringere questa feconda alleanza col capitalismo, ma anche il cattolicesimo. Non a caso i paesi dove sbocciò il capitalismo erano cattolici (l’Italia e le Fiandre). La Chiesa non pose nessun veto all’espansione capitalistica, eccetto sull’usura, nel caso di eccessivi tassi di interesse, ma con la progressiva finanziarizzazione dell’economia anche il cristianesimo si adeguò e i limiti dottrinali si attenuarono. Nei “Viceré” di De Roberto (romanzo la cui fama non rende valore ai meriti) viene descritta la situazione del ceto ecclesiastico dopo l’unificazione italiana; dopo la confisca dei beni dei conventi, i monaci fecero presto a “riciclarsi” e ottenere attraverso la speculazione finanziaria quelle ricchezze che non potevano più essere patrimoniali.

La dottrina cristiana condannava il prestito a interesse fino a quando questo non era funzionale all’economia nel suo complesso, finché l’irrompere del capitalismo non lo pose a monte del processo produttivo. Quando ciò avvenne il cristianesimo si ammorbidì molto su questo punto (cfr. J. K. Galbraith, “Storia dell’economia”).

Non c’è quindi nulla, nel cristianesimo come in tutte le religioni, almeno per quanto riguarda quelle dogmatico-monoteistiche, quelle cosiddette “rivelate” (islam, ebraismo e cristianesimo, appunto) che possa renderlo incompatibile col capitalismo. La forza di queste religioni, anzi, è stata proprio la capacità di essere flessibili e di sapersi adattare ai mutamenti storici e ai sistemi di potere via via succedutisi.

Il capitalismo, anzi, si serve della religione per i propri scopi. Se ne è servito in passato contro i paesi socialisti. Capitalismo e religione (in particolare cristiana e cattolica, ma anche islamica sunnita) strinsero una simbiotica alleanza. Il primo poteva combattere quelle forze che contrastavano la sua egemonia economica, la seconda, poteva respingere l’arcinemico di sempre: l’ateismo materialista che storicamente non era mai apparso tanto forte e agguerrito. Caduto il comunismo storico, ovviamente, gli interessi geo-strategici del capitale e dei paesi imperialisti, in particolare degli Stati Uniti, mutarono. In passato il capitalismo imperialista si è servito dell’Islam per contrastare la potenza sovietica (come in Afghanistan). Il capitalismo non si fa alcuno scrupolo ideologico! Fu disposto ad appoggiare persino la Cina maoista contro l’URSS e i khmer rossi cambogiani contro il Vietnam, figuriamoci se poteva farsi scrupolo ad allearsi con una religione!

Ma dopo il 1989 i nemici erano diventati quei paesi arabo-islamici antimperialisti che resistevano all’egemonia statunitense. L’Iraq, la Libia, l’Iran, la Siria. L’imperialismo atlantico sostenne così il cristianesimo più conservatore contro questi paesi in nome di una crociata anti-islamica. E’ interessante notare come da parte liberale ci sia il tentativo di far collimare la visione cristiana con quella delle istituzioni occidentali: il cristianesimo sarebbe di per sé tollerante, garante di una “società aperta”, come direbbe Karl Popper, mentre l’Islam di per sé barbaro, violento e intollerante. Sebbene alcuni vogliano vedere una lotta all’ultimo sangue tra capitalismo e religione, la realtà è assai più complicata. Il capitalismo non è in lotta con la religione in quanto tale, non lo è mai stato, ma usa ideologicamente le religioni, mettendole le une contro le altre. Se un tempo sostenne i mujaheddin afghani contro i sovietici, oggi dichiara guerra all’Islam per combattere i paesi arabi del Medio Oriente. Il capitale non ha alcun interesse a distruggere l’Islam in quanto tale, ma cavalca l’odio antimusulmano per giustificare le proprie guerre. Lo dimostra il fatto che i paesi in nome dei quali si è intrapresa la crociata sono in genere laici e non confessionali (l’Iraq di Saddam, la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad) mentre non ha nessun pregiudizio nello stringere alleanza con l’Arabia Saudita, stato dove vige la legge coranica interpretata in modo fondamentalista. Il capitalismo non trova alcuna difficoltà a operare in un paese di questo tipo. L’unico vero nemico “religioso” del capitalismo in questo momento può essere l’islam sciita che si schiera nettamente nel campo antimperialista e antisionista.

Basti guardare sotto quale evento storico si è aperta la “caccia al musulmano”. Questa è avvenuta in concomitanza con l’ascesa alla presidenza americana di G. W. Bush. Quest’ultimo ha potuto essere eletto non soltanto grazie al sostegno del potere economico e dell’industria petrolifera, ma anche grazie alle lobby religiose cristiane tradizionaliste. Bush interpretava un’America profonda, che poteva vivere senza alcuna schizofrenia in una società iper-capitalistica ma radicalmente ancorata a tradizioni religiose cristiane. Fu quest’America l'”avanguardia” della “guerra preventiva” contro i paesi arabi.

La religione non è di per sé in contraddizione col capitalismo, chi lo afferma ignora semplicemente la realtà storica dei fatti. Una certa religione, o per meglio dire, una certa corrente dottrinale di una particolare religione può far proprie istanze anticapitaliste. Ne fu un esempio la “Teologia della liberazione”, la quale però ebbe più il carattere di “eresia” e fu combattuta infatti duramente dalla Chiesa cattolica ufficiale (nella sua solita alleanza col capitale, come dimostrarono le vicende e i golpe militari dell’America latina negli anni ’70 e ’80).

Ma è ancora più assurdo pensare di vedere nella religione un baluardo di resistenza anticapitalista da un punto di vista marxista. Marx fu, al contrario, uno dei critici più lucidi della religione (per questo è da esse tanto temuto). La critica alla religione, infatti, non può essere ridotta a una polemica esclusivamente “laicista” e antispiritualista (come vorrebbe Fusaro). Questa è una critica liberal-radicale, feuerbachiana, “borghese”. Quella marxiana, al contrario, non si limita a mettere in discussione i dogmi di fede in nome del razionalismo illuminista, ma serve a far luce sulla condizione “terrena” dell’Uomo, ovvero sulla storia. A differenza del materialismo che lo ha preceduto (di matrice illuminista) quello di Marx è appunto un materialismo storico. La critica della religione è funzionale, cioè, alla critica della società, alla demistificazione delle condizioni di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. “Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni” (K. Marx, “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”). Lungi da far l’elogio delle religioni, dunque, Marx ne contestava i critici perché vi si poneva su un terreno ancor più radicale: quello della demistificazione delle condizioni di oppressione che la religione contribuisce a celare.

  • b) Ancor più paradossale è questa difesa della famiglia tradizionale da parte di certa sinistra anticapitalista. C’è un pregiudizio antiomosessuale che anima questa difesa, pregiudizio che si fonda su un altro pregiudizio, quello della presunta “naturalità” della famiglia monogamica. La “natura” umana è storica, soggetta a continua evoluzione. Non può essere perciò fissata in categorie standard immutabili. Ma al di là di questo aspetto, in che modo la famiglia eserciterebbe una “resistenza” alla irruente avanzata del capitalismo? Al contrario, essa è una “cellula” dell’ordinamento capitalistico della società. Per un marxista questo dovrebbe essere ancor più palese. Nell'”Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” Engels fa una chiara analisi del fenomeno. La famiglia permette la perpetuazione della proprietà privata e lo sfruttamento dell’uomo sulla donna. Quest’ultimo aspetto certamente oggi è in parte ridimensionato, ma solo in parte. Riguarda per lo più la condizione delle donne delle classi medio-basse, le quali accettano la dipendenza economica dal marito per mancanza di lavoro (la disoccupazione è una condizione tipica della società capitalistica). Ma c’è un altro aspetto: ovvero le differenze di classe, che la famiglia serve a proteggere. Ad essa viene affidato dallo stato capitalista il compito di allevare i figli, dunque provvedere al loro benessere, alle cure mediche e alla loro istruzione. Di conseguenza, le differenze di classe emergono in tutta la loro portata. Ai figli delle famiglie ricche sarà assicurato un confortevole alloggio e tutti i comfort possibili, oltre che l’istruzione nelle migliori scuole private. I figli delle famiglie dei ceti meno abbienti, invece, dovranno arrangiarsi, accontentandosi di ciò che il modesto patrimonio dei genitori può offrire loro: il minimo delle cure e un’istruzione insufficiente presso una scuola pubblica che lo stato non si preoccupa di finanziare. La famiglia, oggi come ieri, è utile per tutelare la proprietà delle classi elevate e per rimarcare le differenze di classe. In sostanza, si fa custode del potere dei ceti dominanti.

Il capitalismo non è affatto interessato a una sua dissoluzione e fa di tutto per impedirla. Spesso si rappresenta un battaglia inesistente tra i “valori” del focolare domestico e il capitalismo selvaggio di un mercato incontinente. Doppio errore, grave per un marxista. La famiglia è una cellula della società divisa in classi, e pertanto sarà portatrice dei “valori” di questa società e tenderà a riprodurla. Secondo errore: chi lo dice che il capitalismo, anche nelle vesti del liberismo più esasperato, sia privo di “valori”? Al contrario, non ha mai rinunciato a una ideologia, pur essendo sempre pronto a mutarla. Di essa ne ha assoluto bisogno per legittimarsi (e per delegittimare i propri nemici). Che poi le condizioni reali materiali entrino in contraddizione con l’ideologia è un altro discorso, ma ciò è la caratteristica intrinseca di quest’ultima (Marx, dove sei finito?). Il capitalismo può servirsi della religione (si veda il punto a)) come del liberalismo per i proprio fini ideologici. Quel che conta qui sottolineare però è questo sodalizio mai interrotto che il capitalismo intrattiene con la famiglia.

“Ma come mai allora”, dicono i clerico-marxisti, “vuole distruggere il sacro vincolo del matrimonio tra uomo e donna per permettere alle coppie omosessuali di avere figli, abolendo la diversità sessuale e dando alla prole genitore 1 e genitore 2?” Ma come, non lo capite? Proprio per difendere la famiglia! Il capitalismo è disposto a cambiare alcuni tratti di essa, lasciandone inalterata la sua struttura fondamentale, che non è quella del genitore 1 e del genitore 2, o del genitore maschio e del genitore femmina, ma marxisticamente, i rapporti sociali che la famiglia è chiamata a proteggere. Che a farlo sia una coppia gay o due individui eterosessuali sposati secondo rito cattolico, oppure un individuo singolo, al capitalismo non cambia assolutamente nulla! Esso sostiene entrambe le parti, i tradizionalisti, come gli “innovatori” che vogliono permettere alle coppie gay di sposarsi e avere figli; o, per meglio dire, non sostiene nessuno di essi in particolare, lascia che si scannino tra di loro, purché nessuno dei contendenti metta mai in discussione la struttura di classe della società.

Da dove trae origine questo fraintendimento che confonde posizioni marxiste con posizioni reazionarie? Secondo la tesi di chi scrive, ciò è dovuto sostanzialmente a una interpretazione di Marx in chiave idealistica. È stato persino teorizzato che Marx non fosse una materialista, forse supponendo che egli fosse impazzito a definirsi tale.

Il materialismo di Marx deriva dalla convinzione che le idee, in se stesse, non possono avviare un processo che porti a una mutazione strutturale della società, ovvero che incida sui rapporti di sfruttamento economico di una classe su di un’altra. Ovviamente non intendeva negare l’importanza del fattore ideologico nei processi storici, ma questo non poteva essere disgiunto dall’elemento strutturale, economico, materiale. “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale” (Ideologia tedesca). Perciò presentare una contrapposizione tra idealismo e capitalismo, tra un mondo delle merci materialistico e consumistico e un mondo dello spirito, dei “valori”, degli “ideali” è qualcosa di anti-marxista, oltre che fuorviante.

La classe sfruttata può contrapporre alle idee dominanti altre idee, ma presentandosi, appunto, come classe, cioè come gruppo sociale umano concreto unito dagli stessi interessi, non come puro movimento di idee. Concepire il capitalismo come materialista, opposto a una famiglia luogo del sentimento e dei valori etici è proprio di un romanticismo ingenuo, non certo di Marx e del marxismo. Che poi il capitale entri prima o poi in contraddizione con le sue ideologie – e quindi con quell’etica borghese di cui si tessono le lodi (religione, famiglia, tradizioni) – è soltanto un “effetto collaterale” cui paga dazio l’armamentario ideologico dei gruppi dominanti. Ma di questo Marx era ben consapevole: “La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sull’affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari…” si legge nel secondo capitolo del Manifesto, o come quando rivolge contro la borghesia l’accusa di “comunanza delle mogli” che veniva di solito scagliata contro i comunisti (“In realtà il matrimonio borghese è la comunanza delle mogli”) Al contrario, trasformare questa contraddizione in uno scontro è ricadere appunto nella stessa ideologia e quindi nello stesso capitalismo. Questo “marxismo borghese”, se ci si passa l’espressione, vorrebbe separare il capitale dalla sua ideologia, per appropriarsi di quest’ultima dimenticando, come insegna il materialismo storico, che le idee dominanti sono le idee proprie della classe dominante.