Il caso del “Cristo Salvatore” a Pristina

 

Sullo sfondo delle mobilitazioni e del caos che caratterizza la recente scena politica kosovara, con le ripetute manifestazioni di carattere nazionalista promosse dai movimenti politici dell’opposizione, la AAK (Alleanza per il Futuro del Kosovo di Ramush Haradinaj) e Vetevendosje (il Movimento Autodeterminazione di Albin Kurti), un nuovo caso si presenta sulla scena e rischia di minare ulteriormente, caso mai – e paradossalmente – ve ne fosse ancora bisogno, il tenore dei rapporti serbo-albanesi e il dialogo in corso tra Belgrado e Pristina.

 

L’autogoverno kosovaro di Pristina, infatti, non più tardi di alcuni giorni fa, all’inizio di febbraio, ha minacciato di radere definitivamente al suolo l’edificio incompiuto della Cattedrale di Cristo Salvatore, aggrappandosi al pretesto che non sono state presentate, entro il termine perentorio del 5 febbraio previsto dalla legge, le carte inerenti alla sua regolarizzazione nel registro dedicato. Secondo quanto hanno riferito, entrando nel dettaglio, i media locali, la richiesta di legalizzazione, a carico della Diocesi di Raška e Prizren della Chiesa Ortodossa Serba, doveva prevedere il consenso dell’Università di Pristina, sui cui suoli sorge l’edificio; Università che, dal canto suo, non ha esitato ad intentare causa alla Diocesi stessa nel settembre 2012, in sostanza per “edificazione abusiva”, sostenendo che l’edificio sorgesse su un territorio sottratto abusivamente alla proprietà dell’Università.

 

Ancora una volta, l’edificio muto e incompiuto della Cattedrale serbo-ortodossa di Cristo Salvatore, finisce per fare parlare di sé, diventando un punto di precipitazione di antiche frustrazioni e rimostranze inter-etniche, ma anche un’occasione, per non dire un pretesto, per rinfocolare conflitti e dissidi, dal sapore antico, ma, su una scena politica turbolenta e caotica come quella kosovara, purtroppo sempre attuali. L’edificio sorge nel campus universitario nel pieno centro di Pristina, è stato, all’epoca della sua costruzione, registrato nei libri catastali come proprietà della Diocesi, ma questa attribuzione, come tutte le attribuzioni proprietarie di questo genere, è contestata e non accettata dalle autorità dell’autogoverno kosovaro, che, d’altro canto, non sono nelle condizioni formali di richiedere un arbitrato internazionale in sede ONU, essendo il Kosovo uno “stato di fatto”, fuori dalla legalità internazionale, non riconosciuto dalla Organizzazione dalle Nazioni Unite e dalle sue agenzie.

 

La larva di questo edificio, muto ed incompiuto, finisce così, per l’ennesima volta, per diventare la cartina di tornasole della strumentalizzazione politica della questione etnica in Kosovo, e, non tanto sorprendentemente per la verità, si intreccia con le antiche questioni e i più recenti nodi della scena politica kosovara. Le stesse, imponenti, manifestazioni di protesta che hanno, proprio nelle ultime settimane, attraversato il Kosovo, hanno infatti le loro ragioni di fondo nelle stesse motivazioni che hanno alimentato la polemica sulla Cattedrale: l’annuncio dell’autogoverno kosovaro di escludere il complesso minerario della Trepča, di proprietà serba e situato nel nord del Kosovo a maggioranza serba, dal novero delle risorse da acquisire ha dato il fuoco alle polveri di un disagio sociale, di una povertà diffusa e di un malcontento politico che covavano da tempo sotto la cenere, e che i partiti estremisti hanno avuto gioco facile nel cavalcare e nell’esasperare. Non a caso, il ministro serbo delle comunità nell’autogoverno kosovaro di larga coalizione, Aleksandar Jablanović, è stato “dimissionato”.

 

È impossibile che tali questioni, dalla proprietà serba in Kosovo, all’amministrazione del catasto e dei registri, all’organizzazione amministrativa delle municipalità serbe nella regione a larga maggioranza albanese, possano essere risolte con atti di forza o con iniziative unilaterali. Proprio in queste ore, tra il 9 e il 10 febbraio, è ripreso il dialogo bilaterale a Bruxelles, in cui le due delegazioni, quella del governo serbo e quella dell’autogoverno kosovaro, proveranno a fare il punto dello stato di avanzamento (piuttosto deludente, sino a questo momento) degli accordi di pacificazione del 19 aprile 2013 e a mettere sul tavolo una serie di questioni non meno spinose: dal controllo dell’immigrazione illegale di provenienza kosovara all’amministrazione della giustizia nella regione.

 

Sullo sfondo del campus resta, dunque, la larva di questo edificio monumentale. L’idea della costruzione fu promossa negli anni Novanta, a cavallo della fine della Jugoslavia socialista e l’esordio della nuova Repubblica Federale di Jugoslavia, la “Piccola Jugoslavia”; i suoi lavori cominciarono nel 1995, quando la Jugoslavia era ormai distrutta, la guerra di Bosnia aveva già scatenato il suo inferno di morte e distruzione e Dayton era ormai alle porte. Nel 1999, con l’inizio dei bombardamenti della NATO contro la Jugoslavia, i lavori furono interrotti e da allora, dopo l’insediamento della missione ONU e l’avvio dell’autogoverno kosovaro-albanese, mai più ripresi. In una Pristina, capitale di un Kosovo multi-etnico e, prima della guerra, abitata da 40 mila serbi, la cattedrale rappresentava una testimonianza di multi-confessionalismo. Nel Kosovo mono-etnico dei tempi recenti, essa ha finito con l’essere sempre più identificata come un simbolo del potere serbo ed un esempio di “usurpazione”.

 

Nel momento in cui, dal 1999 in avanti, (almeno) 156 siti religiosi serbo-ortodossi sono stati vandalizzati da estremisti albanesi, e 45 siti culturali serbi definiti zone necessarie di “speciale protezione”, nell’ottobre 2012 fu perfino lanciata una petizione, da parte di alcuni intellettuali albanesi, per la distruzione della cattedrale, riguardata come simbolo dell’oppressione del “potere di Milošević”. Se la strada del dialogo, tratteggiata a Bruxelles, è ancora lunga e impervia, l’incontro delle culture e delle religioni resta centrale e non più rinviabile.