Un paese traumatizzato da trent’anni di guerra, un popolo vitale e pieno di dignità, una società civile attiva e coraggiosa, un progetto per aiutare a passare dalla paura alla fiducia. Parliamo con Alberto Pennella, counsellor, poeta, blogger ed esperto di lavoro sulle emozioni della sua straordinaria esperienza in Afghanistan.

Da dove nasce il progetto “Body and Emotional Mindfulness”?

Ho girato per 45 paesi. Cinque anni fa lavoravo per la Fondazione Banca Europa, una fondazione che si occupa di etica e ho deciso di utilizzare questa mia esperienza internazionale, unita a interviste con esponenti di varie religioni, registi, psichiatri, ecc per costruire un progetto sulla fiducia e i sentimenti. Da lì è nato un “work in progress” che ho sperimentato in diversi paesi, tra cui Portogallo, Slovacchia, Romania, Stati Uniti e Messico. Poi nel giugno 2013 Fiorella Lattuada, che aveva vissuto in Afghanistan cinquant’anni fa e desiderava ritornarci, mi ha chiesto di accompagnarla là.

Quel viaggio è stato una svolta…

Sì. Io adoro l’Asia e gli Afghani mi hanno sempre colpito per la loro profonda dignità, che li ha difesi da secoli di invasioni. La loro cultura è persiana, non araba. Secondo la mia personale interpretazione, il sufismo è nato come un’affascinante miscela tra Islam e buddhismo. Si è trattato di un viaggio di esplorazione: sono stato a Kabul, ma anche nelle zone dei Sufi e in situazioni di guerra. E ho avuto un’intuizione: quello che faccio potrebbe servire, il mio lavoro qui può avere un grande senso.

In settembre sono tornato per un secondo soggiorno. Pensavo di fare qualcosa con gli stranieri dell’ONU e delle ONG che vivono chiusi nei compound, ma poi a Herat il progetto è cambiato: sono stato ospitato dai volontari del Movimento dei Giovani Afghani, nonostante avere in casa uno straniero sia pericoloso, c’è sempre il rischio di un rapimento o di una rappresaglia. Per ricambiare in qualche modo la loro ospitalità ho offerto di tenere un corso di quattro giorni a 14 loro attivisti, tra cui delle studentesse di psicologia che hanno chiesto all’università di invitarmi ufficialmente. E l’università di Herat lo ha fatto. Ho tenuto un corso per 50 persone; invece dei 15 giorni previsti è durato due mesi. Ho lavorato anche in una scuola superiore e partecipato a una conferenza sulla violenza contro le donne con delle studentesse universitarie.

Mi hanno chiesto di tornare un’altra volta e nel marzo del 2014, grazie al sostegno di GUNA, ho tenuto due seminari gratuiti (facevano parte del corso di studi) e aperto un centro di counselling nell’università. Uno dei corsi era la ripetizione di quello già fatto l’anno prima, il secondo, più avanzato, era rivolto a chi aveva già seguito il primo, oltre a professionisti del campo. In tutto c’erano 112 persone. Questa volta per evitare rischi agli amici ho affittato una casa vicino alla moschea (e mi sono ritrovato vicino allo scoppio di una bomba).

E’ importante ricordare che il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Herat ha solo sei anni e insieme a quello dell’Università di Kabul sta formando gli psicologi che dovranno gestire i traumi degli ultimi trent’anni di guerra.

Prima e dopo i seminari era previsto un test per verificarne l’efficacia. Tutti gli indicatori sono stati incoraggianti: erano diminuite l’ansia, la depressione, il senso di inutilità e addirittura le tentazioni suicide ed erano aumentati la concentrazione, il piacere, l’amore per se stessi. In sintesi, la felicità.

Cos’è cambiato da quella prima intuizione sull’utilità del tuo progetto?

In sostanza l’intuizione iniziale si è rivelata corretta. Io e tutti i partecipanti ai seminari abbiamo avuto la conferma che la psicologia non è solo una questione intellettuale, che si può cambiare e acquistare fiducia in se stessi, nella vita e negli altri, che non tutti sono pericolosi e che anche la società può cambiare. Il mio non è solo un lavoro sulle emozioni, ma anche sulle credenze –  prima tra tutte quella che il cambiamento sia impossibile – sull’ascolto corporeo e sull’aumento del livello attenzionale. Questi ultimi due aspetti sono stati fondamentali per la mia relazione con i partecipanti, visto che tenevo i seminari in inglese, con traduzione in persiano. Sto studiando la lingua, ma non la maneggio ancora a sufficienza per usarla nei corsi e nelle sedute di counselling.

C’è stato un effetto a catena: oltre al centro di counselling nell’università, che è andato avanti anche in mia assenza, un gruppo di studenti si è messo a lavorare in un riformatorio. Io ho abilitato due persone a tenere i seminari, una delle quali è un professore universitario.

C’è stato un momento che ti ha particolarmente colpito e commosso?

Ce ne sono stati tanti. Tanti. Mi sono commosso vedendo persone che pensavano al suicidio e poi ritrovavano la felicità. Non ho mai ricevuto tanta riconoscenza per il mio lavoro come in Afghanistan.  Sentirsi così utile ed efficace è stato meraviglioso. E nonostante le differenze di origine e cultura si sono formate amicizie profonde. In una società dove il rischio di essere giudicati e di subire pesanti conseguenze è altissimo, la fiducia di tante persone, tra cui molte donne, che venivano a parlare spontaneamente con me, è stata un regalo inaspettato e prezioso.

L’immagine che arriva qui dell’Afghanistan è quella di un paese violento, corrotto e arretrato, ma quello che racconti fa pensare a una situazione diversa.

E’ vero, la corruzione è un grave problema. Ci sono ancora roccaforti talebane nei villaggi, ma nelle città la situazione è diversa e le donne vanno all’università. Certo, appartengono a una fascia privilegiata che può permettersi di frequentare i corsi e non lavorare. E poi esiste una società civile vivace e attiva, con una trentina di organizzazioni diverse, unite in un coordinamento, che si occupano di temi come la violenza sulle donne e la lotta alla corruzione.

Che progetti hai per il futuro?

Vorrei tornare in maggio per abilitare altri a tenere i corsi, ma la cosa non è ancora definita nei particolari. L’aspetto organizzativo non è facile, ma in ogni caso gli Afghani sono un popolo pieno di vita. Ogni volta che torno in Italia dopo un soggiorno a Herat qui tutto mi sembra più lento.

Chi fosse interessato a conoscere i seminari in modo più dettagliato può  trovare un resoconto approfondito a questo link: http://albertopennella.com/category/afghanistan-riflessioni-sullesperienza/