Esiste una morbosa attenzione in Italia nei confronti dell’illecito delle cariche pubbliche, che si estende non solo a ciò che è oggettivamente passibile di reato secondo le leggi, ma a anche tutto quello che può essere sospettabile o “in odore” di colpevolezza o semplicemente “sconveniente”. Il filosofo francese Michel Foucault notava che nelle società pre-moderne che praticavano la tortura il sospetto rappresentava non un indizio che potesse essere sia provato che smentito, ma era di per sé stesso il marchio infamante che avrebbe portato alla futura confessione del delitto e alla pena. Questo meccanismo sembra replicarsi oggi nei discorsi dei media e nelle chiacchiere “da bar” dell’uomo della strada (spesso la distinzione tra i due soggetti non è così netta) dove si indaga sul personaggio pubblico (dello spettacolo, dello sport, della cronaca nera) alla ricerca paranoica di un segno che possa inchiodarlo come colpevole. I media giocano come il gatto col topo, aizzati da folle di spettatori inferocite, anche se la pena, ovviamente, non è più fisica ma è metaforizzata.

L’innocenza non è contemplata. Il sospetto è già stigma indelebile di un comportamento delittuoso e chi sostiene il contrario viene fatto oggetto di cinico sarcasmo. Questo dispositivo viene ormai replicato non solo nell’effimero del gossip dei rotocalchi ma anche (e con più accanimento) nella cronaca politica ed è la vera sostanza delle lotte tra opposte fazioni che per il resto condividono allegramente proposte e programmi. Ormai non solo l’infrazione della regola, ma anche un comportamento sopra le righe può macchiare la reputazione del malcapitato: feste, tradimenti coniugali, persino stipendi al di sopra della media. Un’accusa di un giornale può bastare a stroncare la carriera di un politico più di una sentenza di un tribunale. Ma da dove viene questa morbosa curiosità, questa volonté de savoir?

È una questione non secondaria. Già la sua stessa esistenza ci dice molto della società che ne è permeata. Perché l’interesse smodato per la fedina penale e morale dell’individuo (purché abbia visibilità mediatica) testimonia di una totale assenza di immaginario politico di chi non crede possibile nient’altro che la gestione “trasparente”, “pulita” (gli unici aggettivi nobilitanti del gergo politico corrente) dell’esistente. L’eroe politico non è più il rivoluzionario, colui che libera i popoli dalla tirannia e dall’oppressione e realizza un disegno superiore alla propria individualità, ma il comune borghese “onesto”, ligio al dovere e che denuncia puntualmente le violazioni in un ambiente di corrotti opportunisti e avidi faccendieri. La morale privata coincide con la giustizia pubblica. Ma le finalità sociali dell’onesto e inflessibile castigatore non differiscono molto da quelle dell’astuto sciacallo burocratico. Entrambi si limitano a preservare lo status quo e non credono in un diverso tipo di organizzazione sociale. Il liberale e politicamente corretto “rispetto delle regole” è il massimo cui poter ambire per il primo, lasciando inalterata la trama dei rapporti sociali, mentre per il secondo il modello è la sregolatezza anarcoide del neoliberismo. Il puritano e il libertino, in fondo, sono due facce della stessa medaglia, perché l’uno non può esistere senza l’altro.

La politica è ridotta a mera estensione delle vita privata del singolo e l’unico imperativo categorico non è quello kantiano, ma quello radicalmente individualista. Che sia per infrangerle in nome di una libertà non dialettizzata, un “cattivo infinito” (Hegel) o per rispettarne la lettera, per adempiere al proprio dovere, gli scopi si esauriscono nell’orizzonte atomistico individuale. Dalla morale, anche quella pubblica, scompare il “regno dei fini” kantiano, sostituito dal pragmatismo del “common sense”.

Suscitano più sdegno le orge di un capo di governo che il tasso di disoccupazione giovanile più alto della storia; i favoritismi di un politico scandalizzano più che lo sfruttamento dei giovani lavoratori sottopagati; le trame di faccendieri locali per accaparrarsi finanziamenti sconvolgono l’opinione pubblica che accetta con disincanto l’occupazione del proprio paese da parte del Fondo Monetario e della Troika. Laddove mette in discussione i rapporti sociali la morale viene sospesa, per essere potenziata fino all’ossessione dove non li scalfisce, ovvero nella sfera dell’individuo atomizzato. E allora l’indicibile, l’osceno, popola le pagine della stampa nazionale che incita alla dittatura economica e alla cessione della sovranità ad aristocrazie finanziarie in nome della moralizzazione delle cariche pubbliche.

“Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti” scriveva Marx nell’Ideologia tedesca e le idee tecno-moralistiche dell’aristocrazia finanziaria e delle élite burocratiche (in questo apparentemente male assortito consorzio di economia e morale comune) sono le idee dominanti in quest’epoca. La concorrenza spietata e l’internazionalizzazione del Capitale a favore del ribasso dei salari viene salutata come segno di “modernizzazione” e di progresso cosmopolita, ma non si ha alcuna tolleranza per la cattiva reputazione dell’ultimo assessore. Ma perché, è lecito chiedersi, le classi dominanti e i loro megafoni editoriali ci tengono tanto a diffondere questo moralismo schizofrenico?

“Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee” si legge sempre nell’Ideologia tedesca e l’imposizione di queste idee è servita ai dominatori per imporre la propria strategia ed affermare i propri interessi. Non solo perché diffondere un fanatismo “legalistico” della politica avrebbe fatto piazza pulita di tutte le velleità rivoluzionarie e anticapitalistiche, ma anche perché la corruzione e il suo uso da parte degli alti funzionari statali e del ceto politico dirigente ha rappresentato un grande ostacolo all’affermazione dell’egemonia finanziaria odierna. Le fitte reti di rapporti clientelari, e gli interessi che legavano gli agenti economici regionali e nazionali agli amministratori, rendevano il ceto politico statale ingestibile. Esso non rispondeva alle logiche dell’internazionalizzazione e del liberismo globale, ma a quelle di un comunitarismo e di un corporativismo vischioso che si innestava (e spesso sorreggeva, occorre dirlo senza ipocrisia) su un protezionismo e un welfare diffuso. L’economista Marcello De Cecco ha usato l’espressione di “keynesismo criminale”; ed effettivamente il sistema di tangenti e clientele induceva il ceto politico a finanziare opere pubbliche e infrastrutture e a ridurre la disoccupazione: una gestione cartalista della finanza pubblica permetteva a questa di espandersi pressoché illimitatamente senza contraccolpi.

Il Capitale ha tollerato un meccanismo del genere, seppure anti-deflattivo e ad alto tasso occupazionale, finché ha potuto, fino a quando, cioè, i profitti potevano espandersi, come spiega la teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio del profitto. Esaurita questa spinta, per garantirsi gli stessi margini di profitto, doveva ridurre gli investimenti, i salari e l’occupazione. Ma per farlo bisognava spazzare via quel ceto politico che su questo sistema aveva prosperato, che aveva creato leggi a tutela del lavoro e che deteneva ancora il controllo di importanti settori industriali. E quale strumento migliore che l’accusa di corruzione? Le prime tragiche avvisaglie si sono avute con l’affaire Baffi, la vicenda che ha visto l’allora governatore della Banca d’Italia ingiustamente incriminato e poi scagionato, che permise la sostituzione dei vertici della Banca centrale, allora ancora troppo keynesiana, e sono culminate negli anni ’90 con l’allestimento di quella grande macchina mediatico-giudiziaria che è stata Mani Pulite.  A quel punto la via era spianata. In cambio dell’immunità e degli incarichi governativi le ex seconde linee dei partiti (soprattutto del PCI) hanno avallato la nuova strategia delle élite capitalistiche: il “keynesismo criminale” era morto, e dalle sue ceneri era nato un “hayekismo virtuoso”, che si fregiava di rimettere in sesto i bilanci pubblici e riduceva la macro alla microeconomia, ignorando allegramente oltre un secolo di scienza economica.

La corruzione si sa, o si dovrebbe sapere, è un male endemico della società capitalistica, come di tutte le società con grandi differenze di classe, e questo lo aveva già capito Rousseau. Già con l’istituzione della proprietà privata, scriveva l’autore del Discorso sull’origine della diseguaglianza, si generano i mali di cui soffre la società. Le campagne moralizzatrici, le inchieste giudiziarie e i vari golpe che fanno tabula rasa dei vertici statali non rendono la società e le sue istituzioni meno corrotte, perché è la struttura stessa dei rapporti sociali che ne è alla base a generare gli scambi di favore e la mercificazione delle cariche, come delle persone, e finché esisterà il capitalismo esisteranno episodi di questo tipo.

Ma era chiaro che, per lo meno, la combinazione di strategie individuali e particolari può determinare un beneficio collettivo. Ovviamente, però, solo a determinate condizioni, e non con un anarcoide laissez-faire, come vorrebbe il neoliberismo. Queste condizioni possono essere create solo da un intervento politico, ovvero dall’organizzazione impressa da determinati gruppi sociali. In questo modo gli interessi della parte possono essere diretti verso scopi collettivi e il bene soggettivo può divenire bene oggettivo. Lo avevano compreso Machiavelli, Hobbes, Hume, Hegel, Marx, Gramsci: persino il male morale può tramutarsi in bene e i vizi privati in pubbliche virtù come nella Favola delle api di Mandeville e come nel “keynesismo criminale” di qualche decennio fa. La moralità non risiede negli scopi e negli atti parziali dei singoli, ma nei fini universali e negli effetti del meccanismo sociale nel suo complesso. Non è un caso se la politica oggi ha smesso di interrogarsi sui fini, accanendosi nella disperata ricerca dei mezzi. A rimpiazzare la ragione oggettiva è la ragione strumentale a cui “interessa soprattutto il rapporto fra mezzi e fini, l’idoneità dei procedimenti adottati per raggiungere scopi che in genere si danno per scontati e che si suppone si spieghino da sé” (Max Horkheimer, Eclisse della ragione). Ecco a cosa si deve, dunque, questa bizzarra combinazione di economicismo e moralismo, all’esclusione dei fini dall’universo di discorso, per la “razionalizzazione”, o “modernizzazione” (termini che riecheggiano sui quotidiani) del sistema, ovvero la richiesta di maggior efficienza. L’apparato deve soltanto essere privato dei rami secchi che ne ostacolano lo spedito funzionamento, e qualsiasi accenno a criticarlo strutturalmente viene bandito.

Matteo Volpe

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