Da qualche mese i media occidentali sono concentrati in una campagna allarmistica nei confronti della Russia. Il crollo del prezzo del petrolio, a causa della decisione dell’Arabia Saudita di mantenere alti i livelli di produzione dell’oro nero, è stato descritto come una terribile sciagura per il paese. Sulla discesa del rublo poi, questi stessi media, sembravano aver preparato in anticipo i funerali di questa nazione. Depressione, disoccupazione, fuga di capitali, rischio default, inflazione; la stampa si è accanita nel descrivere con un pessimismo esagerato la situazione economica del paese, sottovalutando, invece, la ben più drammatica crisi che attraversa l’Europa ormai da anni.

Ad esempio si è detto che il crollo del rublo sarebbe stato un serio problema per Mosca e che esso sarebbe la conseguenza del drammatico calo del prezzo del petrolio. Quest’ultima inferenza è corretta. Ma la stampa raramente si è preoccupata di spiegare le ragioni di questa correlazione. E praticamente mai, tra i grandi giornali, lo ha fatto in maniera esatta.

La svalutazione del rublo non sembra aver scosso più di tanto il Cremlino, il Ministro delle finanze Siluanov ha recentemente dichiarato che non ci saranno grandi rivalutazioni dopo il consistente deprezzamento degli ultimi mesi.

Quello che pare non essere chiaro a certi commentatori occidentali è che la svalutazione è stata proprio lo strumento con il quale Mosca è riuscita a far fronte alla sovrapproduzione petrolifera. Essendo calato il prezzo della materia prima un cambio stabile non avrebbe certo giovato alle esportazioni russe, in quanto l’industria nazionale avrebbe incassato meno moneta. Con il deprezzamento del cambio e la rivalutazione del dollaro, invece, le entrate sono persino aumentate. Per capirlo è sufficiente confrontare il momento di massima forza del dollaro, con quello in cui era il rublo a rafforzarsi. Se consideriamo, ad esempio, lo scorso 24 giugno, in cui un dollaro valeva 33,8 rubli, la quotazione del petrolio WTI era a 100,66 $ al barile. In questa giornata i russi incassavano, conti alla mano, 3402 rubli per barile. Se invece si osserva nel momento di massima debolezza della moneta russa, il 16 dicembre, quando ci volevano 68 rubli per comprare un dollaro e i prezzi del WTI erano crollati fino a 55,8. si noterà che in quest’occasione la cifra incassata è salita a 3794 rubli per barile, con un incremento, quindi, di ben 392 rubli per unità*. In altre parole, il crollo dei prezzi è stato più che compensato dal deprezzamento.

Lungi dall’essere una catastrofe, la debolezza della valuta è stata una manna per i russi.

La strategia dell’Arabia Saudita, volta ad abbassare i prezzi in modo da “sabotare” alcuni concorrenti, per poi farli rialzare nuovamente, non poteva certo creare grossi problemi a una potenza energetica come Mosca, che è tra i primi tre produttori di oro nero al mondo e il principale di gas naturale.

Può invece mettere in difficoltà paesi che dipendono quasi esclusivamente dal petrolio come l’Iran e soprattutto il Venezuela, che ha per di più una moneta agganciata al dollaro.

L’errore occidentale è quello di commisurare qualsiasi politica economica a quella statunitense. Gli Usa sono un paese importatore che quindi ha tutti gli interessi a mantenere una moneta mediamente forte. Ma questo non vale per la Russia, la quale ha una bilancia commerciale in attivo e che dunque non ricaverebbe alcun beneficio da un apprezzamento in un momento come questo, in cui, la materia esportata si sta svalutando. Sicuramente le sanzioni economiche hanno creato qualche disagio al Cremlino. Ma l’economia russa, sebbene abbia rallentato, resta solida, con un basso tasso di disoccupazione e con un’inflazione che, per quanto aumentata dall’8 all’11% negli ultimi due mesi** (quella italiana degli anni ’80 era ben più alta, ad esempio) non è quella tragedia descritta da un certo giornalismo. Anzi, l’aumento interno dei prezzi è proprio il segno di un’economia sana, in espansione, al contrario di quella europea che ormai da tanto, troppo tempo, vive una drammatica deflazione. È di questa e delle serissime condizioni del Vecchio Continente che bisognerebbe preoccuparsi.

 

 

* Fonte: Sole 24 ore

** Fonte: Trading Economics