Anche quest’anno Vittorio Agnoletto ha seguito il Festival del Cinema di Locarno per noi; pubblichiamo le sue cronache in quattro puntate, ecco la terza.

I confini del nostro tempo

 

L’immigrazione resta un tema caldo e affrontato in diverse pellicole.

 

L’Abri è un documentario sul ricovero d’emergenza per i senzatetto a Losanna, presentato dal regista svizzero Fernand Melgar.

In uno squallido sotterraneo, nascosto alla vista dei comuni cittadini ogni sera si consuma un drammatico rituale: gli operatori del centro devono decidere chi entra e chi resta fuori; 50 sono i posti disponibili per gli “eletti” gli altri dovranno sfidare il gelo per le strade della città. Gli operatori non sanno come gestire quest’onnipotenza che la burocrazia cittadina ha assegnato loro, mentre dall’altro lato delle sbarre che delimitano l’entrata al centro, gli immigrati non possono che prendere atto della loro totale impotenza.

Inizialmente la cinepresa inquadra sudamericani ed africani, ma ben presto compaiono spagnoli, italiani e cittadini di ogni angolo d’Europa a testimonianza di come si siano modificati i flussi migratori negli ultimi anni.

L’Abri si sofferma ampiamente sulla burocrazia svizzera che, nella sua lentezza e rigidità, arriva spesso ad impedire l’inserimento lavorativo anche in presenza di una concreta opportunità di lavoro.

Navajazo, il film di Ricardo Silva girato a Tijuana,una città messicana al confine con gli Stati Uniti ha vinto il Pardo d’oro Cineasti del presente. Descrive, tra realtà e finzione, la vita di alcuni personaggi che in un girone dell’inferno, tra miseria e discariche, si arrangiano per sopravvivere attaccandosi, ciascuno a modo suo, a spicchi di realtà quotidiana: si accavallano cosi le storie di un musicista, di un collezionista di bambole, di un regista di film porno, di tossicodipendenti e prostitute…

 

In Broken Land Stephanie Barbey e Luc Peter raccontano invece la vita dall’altra parte della sterminata frontiera che divide il Messico dagli Stati Uniti. Una vita da grande fratello, dove dietro ogni angolo spunta una videocamera, un radar o una torre di controllo. Alcune centinaia di persone vivono blindate nelle loro case, mentre tutte le ore del giorno e della notte sono utilizzate per garantirsi la sicurezza, chiusi in fattorie trasformate in gabbie. Di fronte un muro infinito, in mezzo un deserto dove una scarpa o un’ impronta su una sabbia testimoniano l’incessante tentativo che migliaia di persone compiono di attraversare il confine.

Tentativi documentati spesso da brandelli di carne umana in decomposizione o squartata dai coyote. Tra chi prova pistole e carabine per esercitarsi al tiro all’eventuale immigrato aggressore si aggira chi costeggia il muro di confine  con in mano la croce pregando per l’anima e il corpo di coloro che stanno tentando l’attraversata.

C’è anche chi ogni giorno percorre un pezzo di strada a ritroso, seminando il cammino di acqua, cibo e qualche vestito per offrire solidarietà e rifugio a chi vaga nel deserto in cerca dell’agognata meta.

Nonostante le ingenti misure di controllo e di repressione, sulla linea di confine fioriscono tutt’oggi il narcotraffico e la tratta degli esseri umani. Sono più di 7000, ci racconta un medico adibito al recupero delle salme, le vittime dal 2000 ad oggi. E nulla indica che la situazione possa migliorare nel futuro prossimo.

 

L’Abri, Broken Land e Navajazo, sono indubbiamente tre interessanti documentari che descrivono in modo preciso e terribilmente realistico le condizioni degli immigrati. Questo è il loro valore e la loro importanza; ma lì si fermano.

Non c’è una ricerca delle responsabilità che vada oltre l’indicazione dei diretti gestori di aspetti specifici e contingenti. Non c’è un’ inchiesta sulle ragioni che alimentano condizioni di esistenza subumana; non c’è alcun tentativo di indicare soluzioni possibili, per quanto parziali, da individuare attraverso un’ inchiesta che non si limiti a fotografare l’esistente.

Quello che una volta era se non un cinema militante, certamente di denuncia, basta ricordare dello stesso Melgar  The Fortress del 2008 e  Special Flight (Vol Special) del 2011, ora sembra totalmente scomparso.

Talvolta si ha quasi l’impressione che i registi stiano molto attenti a non superare un’invisibile linea che segna la compatibilità con le regole stabilite dall’establishment.

Altre volte sembra apparire un velato compiacimento per aver mostrato quanto può essere brutta l’esistenza umana; come se aver operato questo disvelamento collochi automaticamente il regista tra i buoni.

Un cinema compassionevole, come è stato definito da alcuni a Locarno. La compassione da sola stimola, quando va bene, qualche commozione e qualche buona parola. Ma oggi questo non  basta.

 


Verità senza storia, sospese nel vuoto.

 

Se dall’immigrazione proviamo ad alzare lo sguardo verso altri temi la situazione non cambia, anzi…

 

Le Temps perdu di Pierre Schoeller descrive la vita nel campo di Kawergost, nel Kurdistan iracheno dove giungono da mesi profughi siriani. Documentario interessante, che fotografa l’esistente, ma che non prova ad indagare le ragioni del conflitto, né a scavare nelle motivazioni degli abitanti del campo; ciò può spingere lo spettatore a sostenere qualche ONG che opera nel campo dei rifugiati e questa è senza dubbio un’opera meritoria.

Ma difficilmente aiuta ad aumentare la consapevolezza e la capacità di discernimento e quindi a costruire nuove forme di pensiero.

 

In Ma’a al-Fidda di  Ossama Mohammed ,Wiam Simar Bedirxan, una coproduzione Siria/Francia, ci troviamo di fronte ad un semplice susseguirsi di immagini, filmati e foto che mostrano la guerra civile siriana, senza nessuna spiegazione, senza alcun tentativo interpretativo se non la semplice ripetizione di frasi inneggianti all’opposizione. Un documentario di propaganda fine a se stesso.

 

L’assenza di qualunque ricerca storica e di qualunque inchiesta priva le pellicole di fondamenta solide con il risultato che, in un epoca di grandi e veloci sommovimenti, quanto viene proiettato può essere ormai ampiamente superato, non più attuale e di difficile interpretazione.

E, almeno parzialmente, è stato questo il destino dei video sulla Siria presentati a Locarno.

Il rischio è quello di un cinema che si limiti a presentare verità senza storia, sospese nel vuoto.

 

Meritevole di attenzione e premiato con il Pardo per la migliore opera prima è Songs from the North della regista Soon mi YOO.

Un difficile tentativo di scavare nella realtà della Corea del Nord, componendo tra loro i risultati di tre viaggi in loco compiuti dalla regista e l’intervista con il di lei padre, originario della Corea del Nord. Padre che, a differenza di alcuni suoi amici, nel momento in cui bisognava scegliere ha deciso di rimanere al di qua del 38° parallelo.

Un documentario che presenta voci ed opinioni differenti sfuggendo sia la celebrazione del potere, sia ogni attacco sciovinista.

Un tentativo di spiegare l’immaginario collettivo, senza tacere le manifestazioni di attaccamento popolare al presidente, né le purghe da questi e dai suoi predecessori realizzate; senza ignorare i divari sociali esistenti nella Corea del Nord in contrasto con le idee proclamate.

Segue la denuncia dell’assenza di qualunque ragione storica a sostegno della linea di divisione tra le due Coree, tracciata artificialmente dagli USA, ed infine si conclude con una previsione: affinché si possa realizzare l’unità delle due Coree è prima necessario che migliorino sensibilmente le condizioni di vita nella Corea del Nord, altrimenti ci troveremmo di fronte ad una semplice, difficile e dolorosa annessione.