Il Centrafrica è “sull’orlo della catastrofe”, con metà della sua popolazione sfollata e 2,2 milioni di persone che necessitano di “aiuti immediati”: è il quadro tracciato e a tempo stesso l’appello rivolto dal capo degli Affari politici dell’Onu Jeffrey Feltman ai 15 Stati membri del Consiglio di sicurezza, nel corso di una sessione dedicata alla crisi nel paese dell’Africa centrale. Dallo scorso 24 dicembre il numero degli sfollati a Bangui, la capitale, è aumentato del 40% con in tutto circa 513.000 persone costrette a lasciare la propria casa dopo un’ondata di violenza senza precedenti tra esponenti dell’ex coalizione ribelle Seleka e uomini delle milizie di autodifesa Anti Balaka. “Le uccisioni a Bangui e nel resto del paese si verificano ogni giorno e la popolazione è divisa su base confessionale” ha sottolineato Feltman, vice del segretario generale Ban Ki-moon.

Intervenuto al Consiglio di sicurezza, il ministro degli Esteri di Bangui, Léonie Banga-Bothy, ha chiesto il “sostegno” della comunità internazionale per “far fronte a una crisi sempre più complessa” e a una situazione umanitaria “sempre più critica”. Dure le parole pronunciate dal rappresentante dell’Unione Africana all’Onu, Tété Antonio, secondo cui “tocca alle autorità di transizione al potere prendere le proprie responsabilità nella crisi”, auspicando un potenziamento della Missione internazionale di sostegno al Centrafrica (Misca), a comando africano. Il rappresentante del Ciad – paese vicino in prima linea nell’intervento militare, sospettato di responsabilità politiche dirette nella crisi – alle Nazioni Unite, Chérif Mahamat Zene, ha invece lanciato l’allarme per violenze “sempre più a sfondo religioso tra milizie musulmane e cristiane”, difendendo però l’operato delle truppe africane dispiegate a Bangui nell’ambito della Misca, costituita da quasi 4000 soldati. Nelle ultime settimane il contingente di N’Djamena – mal visto dai centrafricani che accusano i soldati ciadiani di violenze ma anche di complicità con la Seleka – è finito al centro di critiche dopo uno scambio armato con ‘colleghi’ burundesi della Misca, in quello che è sembrato una lotta per il controllo del territorio.

Nelle prossime settimane, come suggerito da Ban, il Consiglio di sicurezza potrebbe dare il via libera al dispiegamento di caschi blu in Centrafrica, ma per ora l’urgenza riguarda la raccolta dei fondi destinati all’intervento umanitario. Intanto il 9 gennaio a N’Djamena è stato convocato un vertice straordinario sulla crisi centrafricana su iniziativa della Comunità economica dell’Africa centrale (Ceac), con la partecipazione di tutti i partner internazionali per valutare la situazione sul piano della sicurezza e la transizione politica in corso a Bangui. Il 1° febbraio ad Addis Abeba si terrà invece una conferenza dei donatori per far fronte all’emergenza umanitaria del Centrafrica, dove gli sfollati interni sono almeno un milione secondo l’Onu.

Nel frattempo sul terreno sono sempre più nette e diffuse le critiche all’operazione militare francese Sangaris, lanciata un mese fa con 1600 uomini. Nel quartiere Pk5, nei pressi dell’aeroporto, dov’è stabilita la base delle truppe di Parigi e di quelle panafricana, sono sorte iscrizioni sui muri per dire “no alla Francia” e agli “assassini di Sangaris”. Il dispiegamento di battaglioni di militari francesi in alcuni quartieri della capitale è stato bloccato da manifestanti che hanno eretto barricate. Osservatori e stampa locale hanno riferito di un sentimento misto di “rabbia” e “delusione” tra la gente per “la lentezza dell’intervento”, per i “pochi risultati ottenuti finora” mentre nelle zone a maggioranza musulmana viene denunciato il “sostegno aperto dei francesi agli Anti Balaka (cristiani)”. Come conseguenza della crescente ostilità dei locali nei confronti dei soldati dell’ex potenza coloniale, le pattuglie miste Sangaris-Misca sono diventate più frequenti per le strade di Bangui. Nei giorni scorsi, in un clima di calma tesa sono proseguite le operazioni di rimpatrio da Bangui e a destinazione del proprio paese di origine per centinaia di ivoriani, camerunensi, nigeriani, ciadiani, gabonesi, maliani, senegalesi e nigerini.