La notizia è che sono ripresi oggi, martedì 30 luglio 2013, a Washington, dopo oltre tre anni di stallo, i negoziati diretti israelo-palestinesi per una soluzione allo storico, ultra-decennale, conflitto tra Israele e la Palestina, con l’obiettivo di giungere a una soluzione non transitoria ma sostanziale. La previsione è che pochi sembrano nutrire speranze nel successo di questa iniziativa, fortemente voluta dalla amministrazione statunitense e dal secondo mandato di Barack Obama, che cerca così di legare il proprio lascito alla storia e il proprio nome al successo sul teatro in assoluto più controverso.

Molte sono le mine stese lungo il percorso, che appare sin da principio accidentato e controverso, di questo itinerario negoziale: la mobilitazione scoppiata in Israele contro il rilascio di 104 detenuti politici palestinesi nelle carceri israeliane da prima degli Accordi di Oslo (1994) e la profonda lacerazione all’interno del governo di centrodestra chiamato ad approvare il piano di rilascio proposto dal premier conservatore Benjamin Netanyahu sono indizi più che evidenti della refrattarietà e, in alcuni casi, dell’ostilità di una parte non minoritaria dell’opinione pubblica israeliana verso qualunque prospettiva di giustizia e di pacificazione nei confronti della “controparte” palestinese.

D’altra parte le voci critiche che si sono levate contro la presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, provenienti non solo da Hamas e dai Fronti Popolari, ma anche da esponenti di società civile e del mondo intellettuale, per il modo come (non) sono state poste condizioni precise all’apertura del negoziato e per la sostanziale accettazione del principio (sempre più discusso e contestato) dei “due stati per due popoli”, lasciano intendere che l’unità palestinese intorno al tavolo negoziale è ancora molto lontana e le prospettive di una mobilitazione unitaria, anche da parte della solidarietà internazionale, a sostegno di questo processo di pace sono ancora, altrettanto, incerte.

La qualità del “tracciato negoziante” dovrebbe essere riposta stavolta non solo nello sforzo di volontà dei singoli protagonisti (la volontà dell’amministrazione USA, il rinnovato dinamismo del Dipartimento di Stato, lo scenario regionale in profonda evoluzione in tutto il Medio Oriente) quanto soprattutto nell’articolazione della piattaforma negoziale, la quale si basa, in effetti, su poche certezze: il principio dei “due stati per due popoli”; il principio di reciprocità e di gradualità, per cui le mosse delle due parti dovranno essere bilanciate e cadenzate secondo un programma di massima, evitando precipitazioni unilaterali da ambo le parti; il principio del riferimento ai confini legittimi del 1967, antecedenti cioè alle conquiste militari e alle occupazioni violente cui Israele ha dato corso (per lo meno) a partire dalla Guerra dei Sei Giorni, e, attraverso la colonizzazione, nei lunghi anni a seguire.

È difficile dire da ora se le infinite subordinate che accompagnano la riapertura del tavolo negoziale possano tramutarsi in un punto di forza (nel senso di predisporre le parti al compromesso) o de-generare in un punto di caduta (nel senso di alimentare le istanze contrapposte o fare il gioco degli oppositori pronti a fare saltare il tavolo) nello svolgimento del processo. Cosa di cui, del resto, le parti, non solo i negoziatori (Saeb Erekat di parte palestinese e Tzipi Livni di parte israeliana), ma anche l’amministrazione USA (in particolare John Kerry, reduce da sei round di “diplomazia navetta” tra Tel Aviv, Ramallah ed Amman), sembrano essere pienamente consapevoli, se è vero che lo stesso Kerry ha sentenziato che l’obiettivo del negoziato dovrà essere un “compromesso ragionevole”. E’ una dichiarazione destinata a pesare: “cosa” renderà “ragionevole” tale (futuribile) compromesso?

Per ora si parte con il congelamento delle future ulteriori colonizzazioni israeliane in Cisgiordania (ad es. il quartiere ebraico di Ramat Shlomo a Gerusalemme Est), ma non con il blocco di ulteriori espansioni nelle colonie già esistenti; che il principio dei confini storici e legittimi del 1967 vale nella misura in cui “aperto” a modifiche concordate da entrambe le parti (Israele difficilmente rinuncerà ad inglobare le mega-colonie di fatto di Ariel, Maale Adumin ed Etzion, in cui vivono complessivamente quasi centomila coloni israeliani); che il principio del ritorno dei profughi palestinesi sarà temperato con le esigenze abitative delle città interessate, secondo il compromesso di Ginevra.

La Palestina, già riconosciuta come Stato con qualifica di Osservatore in Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sarà dunque riconosciuto come stato sovrano; saranno fatti valere alcuni presupposti sia dell’Iniziativa di Ginevra (2003) sia degli Accordi di Taba (1995); sono intanto entrate in vigore le linee guide dell’Unione Europea circa l’esclusione dai programmi di cooperazione degli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania, provvedimento amministrativo, atteso ed auspicato, che va adesso declinato in tutte le sue implicazioni politiche, economiche, sociali e culturali, prospettiche.

Difficile dire come andrà a finire e le contraddizioni alimentano il dubbio; difficile anche ritenere, però, che senza uno sforzo negoziale possa avviarsi in alcun modo una prospettiva di pace per l’intera regione.