Più che una specie di “nuovaprimaverabosniaca”, sembra essere la classica goccia da far traboccare il vaso. Si sa che il procedimento amministrativo in Bosnia Erzegovina è particolarmente farraginoso, elefantiaco, labirintico: una struttura centrale, quella della Federazione, due strutture nazionali con competenze statuali, la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Serba di Bosnia (Republika Srpska), una organizzazione piuttosto centralistica nella seconda, una quantità di amministrazioni decentrate nella prima, dalle autorità di cantone (province) a quelle di municipalità (cittadine), per giunta costituite su base etnica. Si sa, per di più, che tutto ciò è frutto degli accordi di “pacificazione”, sostanzialmente imposti con la firma degli Accordi di Dayton del 1995 (dei quali la Costituzione di Bosnia è, in buona sostanza, un allegato), tesi ad una cessazione della Guerra di Bosnia che non ha fatto altro che congelare la “situazione di fatto” sul campo di battaglia, srotolando i confini di stato, grosso modo, lungo le linee del fronte. Non che non si sapesse, dunque. Ma stavolta qualcosa è successo a rendere – per l’ennesima volta ed in modo ancora più drammatico – evidente la clamorosa insostenibilità di questa tortuosa architettura istituzionale.

Un provvedimento di legge assunto dal Governo Bosniaco in merito alla identificazione dei cittadini attraverso un numero di riconoscimento personale (sostanzialmente analogo al codice riportato sulle nostre carte di identità, sebbene attribuito anche in questo caso su base “etnica”, vale a dire in funzione delle aree di registrazione riconosciute, rispettivamente afferenti alla Federazione croato-musulmana piuttosto che alla Republika Srpska) è stato infatti contestato da una delle due entità costituenti, impugnato di fronte alla Corte Costituzionale e successivamente fatto decadere. Chiamato a risolvere la controversia e stretto nella tenaglia dei veti reciproci, divergenti e contrapposti, il Parlamento centrale non è riuscito a dirimere la controversia e proporre un testo di legge sostitutivo nei tempi prescritti, cosicché, decaduta la legge precedente, non è subentrata ad essa nessuna nuova normativa. Il “vuoto” venutosi a creare in questo modo ha dell’incredibile e del paradossale, nel generale e nel particolare: in generale, perché sostanzialmente sottrae al Paese la facoltà di attribuire formalmente la cittadinanza; nello specifico, perché impedisce a tutti i bambini e le bambine nati e nate in questo “interregno legislativo” di avere un numero di identità e quindi di potere essere registrati all’anagrafe e, di conseguenza, avere i documenti e accedere ai servizi.

Se dalla guerra deriva il modo astruso, cervellotico ed indecifrabile come viene organizzata la vita pubblica, civile ed istituzionale del Paese, alla guerra tornano le motivazioni per cui l’originario provvedimento governativo sulla “cittadinanza” è stato impugnato. L’art. 5 della legge, infatti, non è coerente con i principi della Costituzione Bosniaca e, quindi, con il dettato degli Accordi di Dayton, nel senso che la legge nomina i vari comuni della Republika Srpska con i loro vecchi nomi d’ante-guerra«nonufficialioduplici»,comeBosanskaGradiska/Gradiska,Jajce/Jezero,Kljuc-Ribnik, SkenderVakuf/Knezevo, Bosanska Krupa/Krupa na Uni, Drvar/Srpski Drvar, Bosanski Brod/Srpski Brod e così via; laddove invece a norma di legge statale della Republika Srpska (quindi di rango generale), confermata anche dalla Consulta di Stato, i “nomi veri” sono solo quelli introdotti dopo la guerra, nell’ordine Gradiska, Jezero, Ribnik, Knezevo, Krupa na Uni, Istocni Drvar, Brod. Da qui la richiesta della Corte Costituzionale al Parlamento della Bosnia-Erzegovina di cambiare l’art. 5, ri-scrivere il testo della legge ed “armonizzarlo”, quindi renderlo coerente con l’utilizzo dei nomi veri delle località della Republika Srpska. Il Parlamento ed il Governo, impallati per mesi nelle diatribe inter-etniche e nei veti reciproci, non sono riusciti a farlo, e siamo finiti così nel limbo.

Il paradosso però sconfina nella tragedia, nel momento in cui la “cittadinanza” (e quindi la possibilità di fruire o meno di un servizio fondamentale) diventa questione “di vita” o “di morte”. Nata (ad oggi) poco più di tre mesi fa, gravemente malata, la piccola Belmina necessita di intervento sanitario urgente all’estero: ma senza il codice di identificazione personale con il quale si viene registrati alla nascita, non può ottenere l’atto di nascita, i documenti di identità e neppure il passa-porto; l’assenza della legge ed i veti inter-etnici le impediscono quindi di ricevere l’intervento di cui habisogno.E laprotesta è montata, stringendod’assedio, fatalmente, i luoghi della politica bosniaca: «Non recediamo dalle nostre richieste: l’approvazione della legge e la costituzione di un fondo di solidarietà per i casi come Belmina sostenuto da quote della diaria di ministri e deputati». Più che una primavera, un altro giorno d’autunno nel lungo, infinito, dopo-guerra di Bosnia Erzegovina.