Le osservazioni di Alberto L’Abate sul Movimento 5 Stelle hanno il pregio di aprire un dibattito e stimolare una riflessione sull’esito della recente vicenda elettorale e, più complessivamente, sulla parabola politica della sinistra italiana e del Movimento.

In fondo, il risultato delle elezioni politiche di febbraio è chiaro nella sua eloquenza: il Partito Democratico, accreditato alla vigilia di un 32% e di una maggioranza sicura alla Camera e conseguibile al Senato, crolla al 25%, per effetto di una campagna mediocre, in grado di “tenere” il voto di base, ma non di “sfondare” presso il voto di opinione, fiacca e per nulla mobilitante. Il Popolo della Libertà, dato solo pochi mesi prima per spacciato, risale oltre il 21% e consegna alla coalizione di centro-destra un quasi pareggio col centro-sinistra, grazie all’ampiezza della sua coalizione e alla capacità di trascinamento della sua leadership, capace di ricompattare quelle pulsioni reazionarie di massa all’insegna delle quali si è svolta buona parte della “fu” II Repubblica. Il vero successo arride a Grillo, forte di un risultato significativo presso insediamenti sociali i più diversi, solido nella sua tenuta elettorale soprattutto nelle città e nei luoghi simbolo della protesta popolare, attestato ben oltre la soglia del 25% che fa del Movimento 5 Stelle il secondo partito  – testa a testa col PD   – alla Camera.

Per la sinistra, insomma, è stata una debacle. Immiserita RC al 2,2% alla Camera e al 1,8% al Senato, deve fare i conti sia con l’effetto della campagna del “voto utile” (al quale capitola circa il 20% del suo stesso elettorato), sia con la residualità del suo radicamento sociale e territoriale, come dimostra il risultato assai poco lusinghiero sia presso le realtà del conflitto sociale sia nelle città metropolitane che avrebbero dovuto costituire una delle basi del suo insediamento. Gli errori commessi si pagano tutti: l’incertezza del messaggio (attaccare un presunto bersanismo e ricordare ogni volta gli spasmodici tentativi fatti per stringere alleanze con la coalizione bersaniana); l’insistenza su temi poco incisivi nelle condizioni materiali (l’afasia sul progetto economico e i temi sociali a partire dall’art. 8 e dall’art. 18); l’insufficiente valorizzazione di candidature autorevoli a sostegno di campagne rilevanti (e il conseguente imbarazzo di dover ogni volta precisare il “destino” di Ingroia, fino all’ultimo incerto della sua stessa candidatura e ogni volta come sospeso tra l’Italia e il Guatemala, restare e partire, tra il Parlamento e la Procura della Repubblica). Né meglio può dirsi sia andata alla componente riformista di questa “sinistra articolata e plurale”, eppure almeno altrettanto “divisa e dispersa”, con SEL che elegge 44 parlamentari, con appena il 3,2% del voto popolare, conseguenza diretta di una legge elettorale sciagurata, su cui, giustamente, tanto si è scritto.

Si tratta di un risultato epocale nella sua gravità e che impone una risposta almeno altrettanto convincente rispetto all’altezza della sfida. Non serve appellarsi all’oscuramento mediatico o alle defezioni dei movimenti. Non basta rifugiarsi nella comoda metafora dell’ultima spiaggia o nella spocchia bigotta del “non siamo stati capiti”. È un vero e proprio banco di prova, che da un lato consegna al Movimento 5 Stelle le parole non dette con sufficiente forza dal Movimento Arancione o da Rivoluzione Civile e dall’altro espelle la sinistra non riformista dal campo del dibattito politico di livello nazionale. Il Movimento 5 Stelle esprime la protesta generale ed avanza delle proposte non organiche, non propone un programma di sistema, non si candida né al governo né all’opposizione, ma a fare da “controllore” del sistema, prende voti indifferentemente dalla Lega in Veneto e dagli Arancioni in Sicilia, si dichiara, cosa tipicamente di destra, “né di destra né di sinistra”, raccoglie l’appello al voto dai CARC – n.PCI ed apre le porte delle sue liste elettorali al peggior fascismo  (revisionista, eversivo e violento)   targato Casa Pound.

Non si tratta semplicemente di un problema di eclettismo, ma di una vera e propria questione democratica. Questo non significa che su alcune singole questioni il Movimento non ponga una serie di discriminanti valide e di alternative percorribili, che effettivamente vanno nel senso dello sviluppo “dal basso” e della democrazia “dal basso”, entro un orizzonte di carattere solidale e partecipativo – dalla battaglia contro la TAV in Val di Susa, dove infatti il consenso capitalizzato dal Movimento è stato a dir poco esplosivo, alle questioni delle energie rinnovabili, della democrazia diretta e dell’open source. Questo significa piuttosto che, un insieme di questioni, istanze e rivendicazioni non bastano, nella loro mera sommatoria e giustapposizione, a comporre un programma, sia esso un programma di governo sia esso un programma di alternativa, rispetto allo “stato di cose presenti” nel concerto democratico nazionale. Sebbene una letteratura sulla questione si stia pure cominciando a formare, sarebbe sbagliato obliterare il dato centrale: il Movimento 5 Stelle, a tutt’oggi, non ha un programma definibile come tale e le stesse, ondivaghe e contraddittorie, prese di posizione dei suoi esponenti di punta, a partire dai neo-cittadini capigruppo, Vito Crimi al Senato e Roberta Lombardi alla Camera, sono la spia meno del “vuoto di idee” che dell’assenza di un programma politico e di una visione generale del paese e della sua “direzione di marcia”.

Il che pone un problema di democrazia al Movimento che, in quanto primo partito nel voto in Italia alla Camera, diventa automaticamente un problema di democrazia e una vera questione democratica per l’intero paese: la centralità del guru e il primato costantemente accordato alle esternazioni del leader carismatico (Grillo) e della sua eminenza grigia (Casaleggio) nella definizione della linea e nella precipitazione dell’iniziativa. Ciò, unito a tutto il resto, dalla dichiarata ammirazione della Lombardi nei confronti del fascismo sansepolcrista alla ostentata convinzione manifestata da Crimi intorno al fatto che PD e PDL, Bersani e Berlusconi, siano la stessa cosa e, in definitiva, che “destra e sinistra pari sono”, dalle infinite contraddizioni del Movimento nelle sue rappresentanze locali fino alla esplicita ammirazione mostrata dalla leader dell’estrema destra transalpina, Marine Le Pen, rendono la presenza del Movimento 5 Stelle nel proscenio istituzionale più una parte del problema che una parte della soluzione, un misto di radicalismo e qualunquismo, con ambigue ascendenze (il Movimento Zero di Massimo Fini tra questi) e ancora più compromettenti collateralismi (frange del radicalismo e dell’antagonismo non immuni da contiguità con aree sovraniste e comunitariste anche volgarmente considerate “neo-comunitarie” e “rosso-brune”). Se il buon giorno si vede dal mattino, non c’è da essere molto contenti dell’attuale piega del corso politico nazionale.