Le fazioni esistono da sempre, c’è chi è pro e chi è contro, chi si schiera da una parte e chi dall’altra e così sembra non esserci una terza possibilità che invece esiste sempre. Essa non è banalmente la via di mezzo che, come amo affermare scherzosamente, è una realtà concreta solo a Camaiore, cittadina toscana in provincia di Lucca attraversata da una via chiamata appunto via di Mezzo. Fuori da ogni battuta ironica, la terza possibilità è quella da percorrere facendo delle scelte libere da schemi fissi e valutando la soluzione migliore specifica per il problema del momento. Questo approccio sarebbe il più efficace per giungere al successo di un’impresa e allora perché non lo applichiamo con abbondante frequenza? Si tratta di incapacità o di una precisa strategia? Vorrei fare un esempio con la politica, intesa non come organizzazione partitica, che per sua natura è caratterizzata da contrapposizioni ed è giusto sia così. In una democrazia reale c’è bisogno di partiti e di schieramenti opposti, c’è chi governa e c’è chi fa l’opposizione, o almeno così dovrebbe essere. Per scelta fondazionale non mi occupo della politica dei partiti ma, da filosofa, sono interessata alla politica intesa come polis, quella dei cittadini che vivono associati in uno stato governato con coraggio e amore per la causa; la polis era un particolare tipo di città-stato propria dell’organizzazione politica greca in età classica e riferirsi a quella vuol dire andare verso una soluzione equilibrata. Ispirarsi alla polis significa uscire dalla politica dei partiti, la filosofia ci ha insegnato a ragionare per oltrepassare i luoghi comuni; ciò non ha nulla a che fare col vivere in un territorio neutro di chi come Ponzio Pilato si lava le mani e per comodità personale non prende una posizione. Io la posizione la prendo, eccome! Sono per un sistema che tenga conto dei fattori specifici: non si può applicare la stessa regola ad ogni fatto della vita, ci sono troppe variabili intervenienti e imprevedibili per stabilire la regola generale valida per sempre. Nella mia scelta ho abbracciato la nonviolenza, come base di azioni e decisioni, perché si possono risolvere le questioni, le contrapposizioni e i problemi attraverso un dialogo vero da intraprendere con impegno. E, come si sa, il dialogo è lo strumento della nonviolenza. Abbracciarla significa trovare una base solida che non è per nulla utopica, che non è farsi scivolare addosso ogni angheria, che non è non ribellarsi, è invece una posizione adatta per affrontare le questioni contingenti partendo da un confronto in dialogo con l’interlocutore, liberi dall’aggressività.

Come ci si libera dall’aggressività? Deponendo le armi che per loro natura non fanno che incentivare la violenza. Tanto tempo fa qualcuno ce lo ha spiegato con chiarezza e competenza. Negli anni ’30 del ‘900, l’antropologo Gregory Bateson attraverso i suoi studi sul campo ha potuto osservare le pratiche relazionali di una popolazione indigena della Nuova Guinea e del loro rituale chiamato Naven. Si tratta di una particolare cerimonia che avveniva in momenti considerati importanti per la vita di un individuo: per l’occasione i familiari del festeggiato si travestivano con gli abiti del sesso opposto; durante il rituale, grazie al travestimento, gli uomini avevano modo di esternare l’emotività e le donne invece l’opportunità di ostentare fierezza, possibilità negate nel quotidiano a causa di quelli oggi definiamo stereotipi di genere. Bateson notò che l’accentuarsi del modello maschile da parte del marito portava la donna a sottomettersi sempre più e il tutto se non interrotto, con il rito del Naven appunto, conduceva ad estreme conseguenze. È un comportamento all’opposto di quello della corsa agli armamenti delle grandi potenze, USA e URSS, all’epoca della Guerra Fredda. Si tratta di una dinamica definita dall’antropologo schismogenesi simmetrica che in parole semplici è: più io ti sfido più tu mi sfiderai creando così una reazione a catena che porta ad una continua espansione degli armamenti, azione adatta soltanto a tenere vivo il conflitto e quindi l’aggressività.

Tornando ai fatti attuali, prendiamo ad esempio la questione dei cosiddetti migranti che giungono sulle nostre coste. Uno schieramento politico sostiene che non dobbiamo accoglierli soprattutto perché sono persone sfruttate da chi ne fa commercio e accogliendoli andiamo ad ingrossare le fila degli schiavi. L’altro schieramento sottolinea che la nostra umanità ci impedisce di lasciarli in balia del mare e che non possiamo sottrarci al dovere di soccorrere chi è in difficoltà. Chi ha ragione? Chi ha torto? Se non ci schieriamo con il nostro partito politico di riferimento, è difficile dirlo forse perché entrambi i punti di vista contengono delle verità, per cui la filosofia mi insegna che sono sprofondata in una aporia e se non voglio rimanere sepolta dall’inerzia devo per forza trovare una via d’uscita e scegliere. Ritorno così a chiedere aiuto al dialogo capace di condurci al salvataggio, se consideriamo il mio esempio dei migranti, e ad impedire che essi diventino schiavi. Ho messo così d’accordo le idee opposte? Non lo so, è però evidente che il mio lavoro è finalizzato a mettere una difronte all’altra le opposte fazioni per giungere ad una soluzione. Si arriverà ad un punto di intesa comune? Dipende dall’impegno e dall’uso quotidiano della nonviolenza come modalità relazionale.

Vi sembrerà una via apparentemente semplicistica, invece è solo la più adatta per impedire agli esseri umani di autodistruggersi, la schismogenesi non si è mai interrotta e per questa ragione siamo in una situazione critica vicini al collasso del sistema. La contrapposizione crescente non si è mai interrotta perché fatichiamo a metterci davvero nei panni degli altri e a realizzare così un vero progetto comune: il bene di tutti.