Durante il concerto dei Coldplay al Gillette Stadium il 16 luglio, una classica inquadratura della kiss cam ha trasformato un momento privato in un’esposizione globale. Tra gli spettatori, la telecamera ha mostrato Andy Byron, CEO della startup americana Astronomer, mentre teneva fra le braccia Kristin Cabot, responsabile delle risorse umane della stessa azienda. Le immagini, rilanciate ovunque in poche ore, sono diventate virali. E con la viralità, il pubblico giudizio.

Nel giro di giorni, Byron si è dimesso. L’azienda ha avviato un’indagine interna, entrambi sono stati sospesi e la loro immagine è stata dissezionata e condivisa, accompagnata da speculazioni e condanne morali. Una storia privata, trasformata in evento globale. Ma oltre il chiacchiericcio e il sensazionalismo, resta una domanda essenziale: che ne è del rispetto per la persona?

Quando la vita diventa spettacolo

Spesso si pensa alla privacy come una forma di protezione per chi sbaglia, come uno scudo per chi agisce in clandestinità. Tuttavia, la legge, il GDPR in Europa e il Codice della Privacy in Italia, tutela anche e soprattutto chi soffre. Chi vive un dolore, chi subisce un tradimento, chi si trova improvvisamente esposto. E quel dolore, per quanto reale, dovrebbe poter essere affrontato in un tempo e in uno spazio intimi, umani, protetti. Non su uno schermo gigante. Non tra commenti affilati e mi piace.

Il diritto all’oblio: che cos’è davvero

Il diritto all’oblio nasce proprio da qui, dall’urgenza di ripristino alle persone il potere di sottrarsi alla gogna pubblica. Di cancellare contenuti dannosi, lesivi, sproporzionati rispetto al contesto. È una tutela che riguarda chiunque, non solo chi ha sbagliato, ma anche chi ha il diritto di riprendersi la propria storia. Di guarire. Di non essere definito per sempre da un errore, da un’immagine, da un abbraccio.

(Il cosiddetto diritto all’oblio, previsto dall’articolo 17 del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati, consente a ogni persona di chiedere la cancellazione o la dei-indicizzazione dai motori di ricerca di contenuti personali che non sono più attuali, che ledono la dignità o che non hanno più rilevanza pubblica. Non si tratta di censura, ma di tutela: il bilanciamento tra il diritto all’informazione e quello, fondamentale, di non restare prigionieri del proprio passato.)

Un mondo che guarda troppo

Le norme europee parlano chiaro. Il trattamento dei dati personali, comprese le immagini in luoghi pubblici, deve avvenire nel rispetto della dignità della persona, con finalità lecite, proporzionate, trasparenti. E la dignità non è compatibile con la spettacolarizzazione del dolore. È un limite che la cultura del clic spesso ignora.

Questa vicenda ne è un esempio lampante. Il bisogno di guardare, commentare, giudicare supera la responsabilità di accogliere. La società della sorveglianza si nutre di fragilità altrui. Ma in questo gioco al massacro, tutti possiamo diventare bersaglio.

A riportare la riflessione su un piano umano è intervenuto in questi giorni Luca Trapanese, assessore al Welfare del Comune di Napoli. Sulla sua pagina Facebook ha scritto: “Il tradimento, a volte, non nasce da cattiveria. Nasce dalla solitudine, dal bisogno, dal momento. E giudicare è facile. Capire, no.” Una frase semplice, eppure così necessaria.

Ricominciamo a guardarci

Viviamo in un mondo che desidera risposte nette, colpe chiare, storie da consumare. Tuttavia, la realtà è più sfumata. E anche se tutti vorremmo un mondo lineare e giusto, capita che si cada. Il compito di una società migliore, allora, non è puntare il dito, ma tendere una mano. Il giudizio non è per noi, che di peccati verso l’umanità intera ne abbiamo da vendere.

Il vero monitor è questo: riflettere, e se necessario fare un passo indietro. In un mondo che, pur di vendere immagini, titoli e visibilità, calpesta le persone, la dignità umana non è più un diritto ma una vittima. È un sistema che accontenta il mercato dei guardoni ignoranti, quelli che pagano volentieri per il fumo, per la fuffa. Ma noi possiamo scegliere. Possiamo smettere di cliccare. Possiamo non condividere. Possiamo, almeno per una volta, restare in silenzio.

Serve anche un bando simbolico, e forse reale, alle telecamere che ci osservano ovunque. Questa cultura del controllo travestita da spettacolo ci sta togliendo l’essenziale. Stiamo normalizzando l’idea che ogni istante vada documentato, ogni emozione mostrata, ogni felicità esibita per essere valida.

Ed è qui la contraddizione più feroce: vogliamo insegnare ai nostri figli l’essenza, il valore dell’autenticità, ma li cresciamo in un mondo dove l’apparire viene prima del sentire. Dove anche la gioia più piccola sembra non esistere se non è condivisa. Pare che il mondo non sia più capace di felicità silenziose, interiori, intime. E questa non è evoluzione, è una perdita.

L’amore, anche quando inciampa, non merita la gogna. E chi soffre ha il diritto di farlo in pace, senza riflettori, senza applausi, senza condanne. Smettiamola con gli occhi ovunque. Smettiamola con gli schermi ovunque. Ricominciamo a guardarci negli occhi, davvero. E basta.