Il 15 giugno, in piazza Masullo, tutto è cominciato con la voce emozionata di una ragazza di sedici anni. Ha letto i versi di Ungaretti davanti a una piazza raccolta, commossa, sospesa nel silenzio.
Era l’inizio di un presidio poetico per Gaza, dove la parola si è fatta resistenza, memoria, dolore condiviso.
In un tempo segnato dalla guerra e dalla disumanità, in cui le bombe continuano a cadere su Gaza e nuovi equilibri si spezzano coinvolgendo anche l’Iran, anche un gesto semplice come leggere una poesia può diventare un atto di resistenza. Nulla è troppo piccolo, se fatto insieme, se fatto con consapevolezza. Nessuno deve sentirsi sconfitto. Ogni parola detta, ogni sguardo che si solleva, ogni presenza può diventare significato. Ed è in questo spirito che il Presidio Permanente di Pace e la libreria IoCiSto hanno dato vita all’evento Poesie al tramonto per Gaza.
Nonostante il caldo soffocante, la scalinata di Piazzetta Aldo Masullo era gremita. Un pubblico attento, pronto a lasciarsi attraversare da versi e testimonianze. Stefania De Giovanni apre la serata con un benvenuto sentito e potente: racconta la libreria come un luogo “senza barriere e senza bandiere, ma fortemente schierato”. Schierato per la pace, per tutte le vittime della guerra, per la giustizia. Il Presidio Permanente di Pace, ricorda, ha scelto di combattere solo con la parola. Con la parola detta, scritta, cercata. Le poesie che verranno lette non chiedono pietà, ma ascolto. Non invocano compassione, ma presenza. E proprio questo viene chiesto al pubblico: esserci. Perché oggi prendere la parola è già una presa di posizione, un gesto che ha un peso.
Stefania racconta anche il simbolo scelto per il presidio: la melagrana, proposta dall’arabista Giuliana Cacciapuoti, docente all’Università L’Orientale di Napoli e membro attivo del Presidio di Pace. Un frutto che rappresenta l’idea di comunità: molti chicchi, diversi tra loro, ma stretti insieme, senza perdere la propria identità.
I testi letti durante la serata provengono dalla raccolta “Il loro grido è la mia voce”, edita da Fazi. I giovani lettori, ragazze e ragazzi che con autenticità e passione si sono alternati sul palco, hanno dato vita a momenti di grande forza emotiva. Le loro parole hanno attraversato il tempo presente, restituendo senso a ciò che spesso viene ridotto a statistica.
Massimo Varriale, moderatore della serata, prende la parola per introdurre il primo ospite: Guido Piccoli, giornalista e attivista. Piccoli apre dicendo che quella è, prima di tutto, una serata dei ragazzi e della poesia, e quindi non si tratterrà a lungo. Ma il suo intervento lascia il segno. Dice con chiarezza che il nemico del popolo palestinese non ha limiti: continua a fare guerra, ne ha appena scatenata una nuova e non si fermerà. “Non riesco a capire come si possa vivere in quel paese”, aggiunge, riferendosi a Israele, da cui scappano decine di migliaia di persone ogni anno. Un segno evidente della paura e del terrore. Ma il passaggio più forte è quello rivolto all’Occidente, di cui dichiara di vergognarsi: “Il vero nemico della gente di Gaza, dei palestinesi, siamo sostanzialmente noi, questo Occidente che ha perso ogni valore, prima ancora che politico.” Riconosce lo smarrimento etico che attraversa anche la politica italiana. Conclude dicendo che la poesia, con la sua semplicità, può dire molto più delle solite analisi. “Ci vuole poco a scriverla, ma quando la leggi può cambiare molto.” Le poesie continuano, si susseguono dense, sempre più cariche di significato. È Massimo Varriale a introdurre Omar Suleiman, rappresentante della comunità palestinese di Napoli. Ne ricorda il gesto forte e solitario compiuto lo scorso marzo, quando si è incatenato davanti al Municipio per chiedere una presa di posizione chiara sulla tragedia in corso a Gaza, invitando parlamentari e rappresentanti istituzionali a fare lo stesso. Nessuno ha risposto.
Nel presentarlo, Varriale richiama anche una delle sue frasi più lucide e scomode:
“Per favore, non mettete sulle spalle di noi palestinesi tutto il peso dell’Olocausto.”
Poi Omar prende la parola. Ma non parla, declama. Sceglie la poesia per dire ciò che altrimenti resterebbe senza voce.
Legge un componimento struggente, un elogio d’amore dedicato a una donna che non c’è più, metafora luminosa e dolorosa del momento che la Palestina sta attraversando. Le sue parole vibrano nell’aria, intense, sincere, capaci di toccare l’animo di chi ha avuto il sentimento profondo di ascoltarlo fino in fondo.
“Non riesco a trovare altre parole, dice, per raccontare ciò che succede a Gaza. La distruzione, la perdita, la casa che non c’è più, la scuola, la vita, tutto questo posso raccontarlo solo così, con la poesia.”
E chiude invitando tutti a partecipare alle manifestazioni dei prossimi giorni a Napoli. Per non voltarsi dall’altra parte. Per non restare in silenzio.
Quando arriva il turno di Nives Monda, attivista e fondatrice della Taverna Santa Chiara, le parole si fanno intime e taglienti. Racconta la sua esperienza di attivismo quotidiano, il peso del coraggio, la difficoltà ma anche la necessità di restare umani.
“Attraversando tante piazze, dice, vi dico con umiltà che dobbiamo stare accanto a chi piange i propri morti. Possiamo commuoverci, sì, ma se non accompagniamo l’azione a un’autentica presa di posizione, facciamo un altro danno.”
Ricorda che la poesia è uno strumento che setaccia il fango e tira fuori la verità, anche quando è scomoda. Ma serve anche la storia: non si può prendere posizione oggi senza conoscere ciò che è stato.
“Fatevi raccontare la storia, ma non quella riscritta dai potenti. Non quella che cancella il presente e nega il futuro. Ribellatevi a chi semplifica, a chi chiama ‘conflitto’ ciò che è invasione.”
Il tono si fa più duro. Denuncia le armi fornite dall’Occidente e mette in discussione la narrazione dominante:
“Non possiamo più limitarci a stare seduti. Altrimenti trasformiamo tutto in un altro Giorno della Memoria, vuoto, ripetuto. Ci vogliono far credere che non possiamo fare nulla. Ma non è vero. Possiamo agire, ogni giorno, in ogni luogo: nelle scuole, per strada, ovunque.”
Poi si racconta. Parla delle sue radici familiari, del valore dell’antifascismo trasmesso dai genitori, dell’impegno come scelta quotidiana:
“Sono cresciuta in una casa dove si faceva politica. Dove i miei genitori non si sono mai voltati dall’altra parte. E io, da allora, non l’ho mai fatto.”
Condivide anche un episodio recente che l’ha vista protagonista: una denuncia per non aver negato un pasto a chi aveva bisogno.
“Sono intervenuta. Forse sarò assolta, forse no. Ma l’ho fatto perché non si può ascoltare chi, dopo aver mangiato a sazietà, racconta la propria città come un esempio di pace e accoglienza, mentre fuori si discrimina. Non è possibile dar da mangiare a chi toglie cibo ad altri. Non è giustizia. È ipocrisia.
”Dopo altri momenti di poesia, arriva l’intervento di Mediterranea Saving Humans con Francesca, che racconta le missioni di soccorso e interposizione civile nei territori dove ogni giorno si nega il diritto alla vita. Un lavoro silenzioso ma potente, una presenza concreta laddove l’umanità è messa in discussione.
Il gesto conclusivo è fortemente simbolico: sulle note di The Sound of Silence, i ragazzi si coprono con sudari bianchi. Alcuni restano stesi, altri immobili. Un’immagine che paralizza il tempo e lascia spazio solo al silenzio e alla coscienza.
Infine, un violoncello: Daniela Scarco, un pianoforte: Elena Simeone, una voce, quella di Dahami Jayasuriya Kuranage, che intona Imagine di John Lennon. Una voce limpida e piena, che si alza come preghiera e possibilità. Immaginare un mondo diverso non è più un’utopia: è un’urgenza.
Non c’è bisogno di applausi. C’è bisogno di alleanze. Questo hanno chiesto le voci di Poesie al tramonto per Gaza. E questo è ciò che resta: la certezza che anche nei momenti più bui, ogni parola detta con sincerità può essere una luce.
La serata si chiude lentamente, senza clamori. Le persone vanno via in silenzio, una alla volta, con passi lenti e sorrisi leggeri, come se qualcosa dentro si fosse ricomposto. La vita intorno continua, come sempre. Ma in ognuno resta qualcosa: un pensiero che ritorna, un dolore che non passa, una voce che chiama da lontano. In ognuno resta, latente, il peso di chi in questo stesso momento sta combattendo la sua battaglia più dura: quella per la sopravvivenza. E il nostro sorriso, anche quando nasce in un momento di quiete, non può dimenticarlo.
«Non gridate più. Ma chi non ha nulla da dire, taccia per sempre.»
Non gridate più
cessate di uccidere i morti
non gridate più
se li volete ancora udire
se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
li sorprendereste col vostro clamore.
Giuseppe Ungaretti
foto di Lucia Montanaro









