Una piccola gioia nella desolazione e nel lutto generali. Ma andiamo con ordine. “I Janjaweed negli ultimi dieci mesi hanno fatto circa 10 milioni di morti” dice Suliman. Sono allibita. Adesso che hanno lasciato Khartum (quasi completamente) si scopre che in ogni casa della città ci sono morti; in particolare andandosene hanno completato l’opera più che hanno potuto. Questi assassini – penso – si ritengono probabilmente pure credenti: come si presenteranno davanti al loro dio con quelle mani grondanti di sangue? “I cittadini che non sono morti per mano dei Janjaweed sono stati ammazzati dai soldati di Al Burhan, che vedendoli ancora in città li accusano di stare dalla parte delle Rapid Support Forces” continua Suliman parlando di Karthum.

I Janjaweed lasciano la capitale così come tante altre città perché stanno convergendo tutti in Darfur: è lì che vogliono fare il loro Stato, lo Stato di Hemedti (dal nome del loro capo): ormai tutte le città del Darfur sono capitolate, pure Al Fashir, anche se rimane una piccola parte che resiste. Il campo di Zamzam sembra non avere speranze: è completamente isolato, circondato dai Janjaweed e da strade dissestate e impercorribili. L’acqua è arrivata a prezzi da petrolio, o forse più. I milioni di persone che sono là dentro -non so se qualche Ong stia ancora lì con loro, ma temo di no – sono imprigionate nella miseria più totale e mancano di tutto (1).

Campo profughi di Zamzam

Suliman ha ancora parenti in questo Darfur irriconoscibile, che si va riempiendo – orrore – di questi assassini. C’è sua figlia, la più grande, Amina (figlia della sua prima moglie), con i suoi quattro figli: abitano nella parte nord, non troppo lontano dal confine con la Libia, ma quello stesso confine è al momento irraggiungibile perché non ci sono più strade. Padre e figlia si sentono per telefono una volta al mese, quando lei riesce a raggiungere un certo posto dove c’è il Wi-fi. Sembra però che al momento questo collegamento Internet sia interrotto.

Poi c’è un fratello di Suliman, il maestro, quello che ha fatto partire la moglie e le due figlie per l’Egitto, ma lui è rimasto a Nyala, dicendo che dentro casa (la loro vecchia casa di famiglia) sarebbe stato al sicuro. Ma il vero problema era economico: partire in quattro è diverso da partire in tre e i soldi racimolati non potevano proprio farcela ad arrivare alla cifra che sarebbe servita. Chiedo a Suli che vita si può fare in una città assediata dai Janjaweed e gli domando se altra gente è rimasta nella città di Nyala. La risposta è sì: la gente c’è, non tutti hanno dove andare né i soldi per partire.

“Se tuo fratello deve uscire per andare a comprare qualcosa, che succede quando incontra un Janjaweed?” gli chiedo. “Bisogna uscire sempre con pochi soldi” mi risponde “perché in questo caso non ti succede niente; se invece hai molti soldi o il cellulare i Janjaweed ti ammazzano”. “Ma se tu glielo dai, ti ammazzano lo stesso?“ Suliman mi spiega che non vengono a chiedertelo, hanno paura anche loro perché molti cittadini sono armati: vedono da lontano che hai il cellulare e ti sparano. Che hai molti soldi invece (quale sarà il tetto sopra al quale i soldi diventano per loro appetibili?) non si sa bene da cosa lo capiscano. Una vita impossibile. Cammini per le strade e il tuo corpo non è più tuo: qualcuno lo sta scrutando per capire se vale la pena farti fuori. E non si vede all’orizzonte l’ombra di una fine, il ventilarsi di una qualche trattativa, almeno per una tregua: siamo ormai all’incontrollabile. E’ un film dell’orrore, ammazzare per ammazzare, per eliminare potenzialmente tutti. Tutti gli africani. Tutta la bella gente che a pieno diritto ha abitato finora quei luoghi e quelle città. Non è anche questo un genocidio che si sta perpetrando? Israele fa scuola.

“Come sarà ridotta la tua casa di Khartum? “ domando. Ha notizie dal suo vicino: non c’è più il cancelletto d’entrata (tutte le cose di ferro sono state demolite e portate via), finestre e porte sono state scardinate e rubate e chissà che altro. Meglio non pensarci.

Ma stasera Fatima è sollevata: da una settimana il figlio Ahmed è arrivato da loro al Cairo per rimanere. Ha fatto un viaggio rischioso, un viaggio da “clandestino”: dalla città a nord del Sudan, dove si era fermato per circa un anno a lavorare, la Libia dista circa 300 Km e lui li ha dovuti percorrere tra mille pericoli. E poi tutto l’Egitto da sud a nord. E’ stato molto bravo Ahmed, e coraggioso, lui che vorrebbe continuare a studiare ingegneria, iscriversi alla specialistica che neanche a Khartum c’era; chissà se potrà un giorno farlo al Cairo o magari – come era nei suoi propositi e come avevo cercato io stessa di farmi tramite – in Italia.

Mi raccontava Suliman che Fatima era molto triste e preoccupata e spesso piangeva perché vedendo e ascoltando le notizie del Sudan capiva che suo figlio era in serio pericolo. Ma ora, da quando lui è arrivato, lei è cambiata, si è rasserenata. Chiedo a Suli della loro salute. Mi dice che va bene, poi aggiunge che solo al 50% non va bene, e per Fatima al 30%. La prossima volta ne parleremo di più: immagino che non si stiano più curando; come potrebbero farlo se bisogna innanzitutto nutrirsi (di quell’essenziale)? Ma come si può vivere con malattie curabili e non curarsi?

Fatima vuole venire al telefono a parlare con me. Suliman me la passa. Questa volta dopo i primi saluti in arabo (kaiha halluka, halluki? al hamdulillà, uà anti? La bas, sciucran) comincio a dirle in inglese che sono contenta che Ahmed è lì con loro. Fatima ha sempre la sua voce squillante, da giovinetta. E alla fine mi dice con perfetta pronuncia: “Grazie, Francesca” E io, meravigliata: “Che italiano, complimenti!”. E Fatima ride, ride. Poi dico a Suliman che deve darle lezioni di italiano perché lei – come diceva l’altra volta- vuole impararlo. Anche se solo per chiacchierare. E ridere per un momento.

Nota 1

Circa due settimane fa Suliman mi aveva girato un comunicato: “Il campo di sfollati di Zamzam, nello stato del Nord Darfur, nel Sudan Occidentale, è teatro di una grave crisi idrica che si aggiunge a una serie di sfide affrontate dagli sfollati alla luce dell’assedio imposto al campo. Gli sfollati soffrono di una grave carenza di acqua potabile a causa della mancanza di benzina”. E continua dicendo che in seguito a recenti attacchi dei Janjaweed in alcuni villaggi posti a sud e a ovest del campo di Zamzam migliaia di cittadini sono dovuti fuggire e si sono rifugiati nel suddetto campo, già sovraffollato.

L’attivista umanitario, nonché rappresentante del pronto soccorso del campo, Haroun Adena, ha dichiarato che la situazione è diventata insopportabile e che il campo ora ospita circa due milioni di persone. La crisi idrica purtroppo non è nuova nel campo, ma ora si è notevolmente acuita, anche perché le Rapid Support Forces hanno interrotto il collegamento con alcune fonti. E’ una sfida quotidiana per i beni di prima necessità: acqua, cibo, assistenza sanitaria. “Oggi a Zamzam un barile d’acqua costa 15 sterline” conclude il comunicato.

Link agli articoli precedenti:

https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/
https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/
https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/