L’analisi di un dirigente scolastico alla riforma della scuola pubblica che mette in pratica l’idea dell’istruzione da don Milani definita un modello pedagogico che “cura i sani e respinge i malati”.
Di fronte a un progetto educativo che riduce i tempi dell’apprendimento e sottomette la scuola pubblica alle esigenze delle imprese, il Ministro Valditara, con linguaggio orwelliano, parla di “bilancio estremamente positivo”.
Tuttavia, analizzando i dati, emerge una realtà ben diversa.
Nell’anno scolastico 2024/25, nonostante le evidenti forzature per incoraggiare la frequentazione, alle classi sperimentali del 4+2 si sono raggiunte solo 1˙669 iscrizioni, a fronte di 186˙278 complessive negli istituti tecnici e di 86˙578 alle scuole professionali.
Molte istituzioni scolastiche sono tentate di mettere in atto il modello proposto dal Ministro per difendersi dallo spettro della denatalità, dalla riduzione delle iscrizioni e dal conseguente rischio di dimensionamento degli istituti; ma, nello stesso tempo, emerge sostanzialmente una resistenza e un rifiuto del modello da parte del mondo della scuola.
Infatti le scuole che hanno sperimentato il modello del “diploma in 4 anni” tendono ad abbandonarlo perché inefficace.
Il cuore ideologico della riforma 4+2 è il concetto di “filiera” importato nella scuola direttamente dal mondo imprenditoriale. Il sistema scolastico deve andare incontro alle necessità del “mondo produttivo”. Assumendo direttamente la retorica degli imprenditori, che individuano nell’inefficienza della formazione la causa delle difficoltà a trovare personale per specifiche qualifiche, il Ministro ha facile gioco nel definire un “delitto” il mancato allineamento tra scuola e lavoro. Per affrontare questa situazione ha impostato una riforma che prevede il raggiungimento degli obiettivi di apprendimento, oggi previsti per il quinto anno, in soli 4 anni.
In tal modo realizza quel modello pedagogico che Don Milani avrebbe definito come scuola che “cura i sani e respinge i malati”, e opera una ulteriore canalizzazione settoriale nei percorsi di studio che invia i figli della classe lavoratrice in percorsi più brevi e subalterni.
In altre parole, il Ministro sta impostando una scuola che smette di formare cittadini e inizia a produrre forza lavoro per le esigenze immediate delle imprese, realizzando il vero crimine pedagogico: quello di rubare il tempo dell’apprendimento agli studenti. Un tempo che dovrebbe essere dedicato alla crescita integrale della persona e alla formazione integrale del cittadino. Perché, come affermava Antonio Gramsci, la scuola pubblica statale dovrebbe fornire a tutti i suoi futuri cittadini gli strumenti culturali per dirigere, non solo per obbedire.
Se la scuola non è più il luogo di formazione integrale del cittadino, ma l’ufficio di formazione delle imprese, se la scuola deve servire a formare manodopera pronta all’uso a spese della collettività, disciplinata e priva di quegli strumenti critici – forniti da una piena formazione scolastica – che permettono di mettere in discussione i rapporti di forza nei luoghi di lavoro, allora è ineluttabile (ed è quello che sta facendo il Ministero) che la riforma proceda in un modo autoritario. Cosa che sta avvenendo attraverso processi che, mentre apparentemente fingono di far riferimento all’autonomia delle istituzioni scolastiche, si realizzano attraverso pressioni, dirette e indirette, sui dirigenti scolastici per aderire alla sperimentazione, anche scavalcando o manipolando il Collegio dei Docenti e la possibilità di aderire ad un “avviso nazionale” a cui gli istituti possono partecipare senza aver predisposto criteri scientifici di sperimentazione.
Il modello 4+2 non è altro che un ritorno al passato. Il ritorno ad una scuola classista che divide rigidamente chi deve pensare da chi deve produrre.
Eppure invece nell’epoca del lavoro immateriale sarebbe ancor più necessario che la scuola estendesse il tempo della formazione formale ai propri studenti per consentire loro di diventare pienamente cittadini, liberi e capaci di intervenire a determinare il futuro della nostra società.
Marco Bizzoni










