In un momento in cui le bombe cadono sui bambini e le coscienze tacciono, un gruppo di insegnanti, genitori e cittadini ha scelto di prendere parola e occupare lo spazio pubblico con un gesto semplice, ma necessario: esserci.

Martedì 1° aprile, in piazza Montecalvario, nel cuore dei Quartieri Spagnoli di Napoli, si è tenuta una manifestazione in memoria dei bambini uccisi nella guerra tra Israele e Hamas, vittime innocenti del conflitto in corso nella Striscia di Gaza.

Insegnanti, genitori e cittadini si sono riuniti in silenzio, portando con sé dei giocattoli da deporre simbolicamente a terra, come gesto di solidarietà e vicinanza alle famiglie colpite.

La piazza era viva, attraversata da sguardi attenti, parole sottovoce, sorrisi discreti e dalle risate dei bambini, forse ignari del momento. I giocattoli, pelouche, costruzioni, pupazzetti, palle, poggiati a terra con cura. Alcuni incartati, altri accompagnati da biglietti scritti a mano. C’era chi li teneva stretti tra le mani, quasi a proteggerli fino all’ultimo. Una madre ha sussurrato: “È difficile spiegare la guerra a una bambina di cinque anni, ma so che questo gesto resterà”.

Tra i cartelli e i volantini che riportavano i numeri dell’orrore, spiccava al lato della piazza un grande disegno: una fetta d’anguria, colorata con i toni della bandiera palestinese, un simbolo potente e carico di storia. Dopo il 1967, quando la bandiera palestinese fu vietata nei territori occupati, l’anguria ne divenne l’alternativa silenziosa ma inequivocabile: il rosso della polpa, il verde della buccia, il bianco e il nero dei semi e dei contorni. Ancora oggi è un segno di resistenza, identità e opposizione all’occupazione.

Su quel disegno, i bambini — con le mani intinte nella tempera nera — hanno lasciato le loro impronte a formare i semi: semi di pace, sparsi in una fetta che parlava di dignità e speranza.

Poi la piazza si è unita in un grande girotondo di pace, che ha abbracciato tutta Montecalvario. Insegnanti, genitori, bambini, con le mani intrecciate: un cerchio umano, forte, che diceva con il corpo quello che le parole da sole non bastano più a dire.

Sono seguiti diversi interventi. Alcune insegnanti hanno condiviso il senso profondo di essere lì, come educatrici e come persone. Una ragazza, palestinese di seconda generazione, ha raccontato la storia di un ragazzo palestinese imprigionato a tredici anni e ancora rinchiuso dopo moltissimi anni, portando dentro la piazza un frammento vivo di ciò che troppo spesso resta invisibile.

A chiudere, il lungo e appassionato intervento di Omar Sulaiman, rappresentante della comunità palestinese in Campania, che ha denunciato con forza il genocidio in corso: Nessuno può dire di non sapere, perché tutti hanno accesso a uno smartphone, una TV, un computer. Non possiamo più dire ‘non lo sapevamo’. È sconvolgente vedere l’Occidente, che si dichiara la patria dei diritti umani, voltarsi dall’altra parte, sventolare umanità e intanto essere complice, con il silenzio, della morte di oltre 19.782 bambini.”

Ha ricordato l’aggressione subita per aver indossato la kefiah. Ha parlato dei 16.500 bambini rimasti orfani di entrambi i genitori, dei 7.000 bambini amputati, molti dei quali operati senza anestesia. Poi ha pronunciato parole che hanno colpito tutti: “Tra quindici anni, quando questi bambini diventeranno grandi e imbracceranno i fucili per vendicare i loro genitori, non potremo chiamarli terroristi. Allora tocca a noi, che abbiamo ancora un briciolo di umanità, salvarli oggi. La pace non è uno slogan, né una bandiera arcobaleno. La pace è giustizia. Significa individuare i responsabili, ripristinare diritti usurpati, e fare tutto il possibile per lasciare un mondo senza guerre e senza armi.”

 

Al calare del sole, ognuno ha ripreso con sé il proprio dono, lasciando nella piazza il segno collettivo di un gesto simbolico.

Non c’è stato bisogno di comizi o slogan urlati. Montecalvario ha parlato con il linguaggio dei bambini, delle mani sporche di colore, dei giocattoli che non sono partiti, ma che hanno lasciato un messaggio chiaro: noi ci siamo.

E mentre la piazza si svuotava piano, restava nell’aria una domanda semplice e terribile: cosa possiamo fare, qui, ora, davanti a un orrore così grande?

La risposta forse è proprio questa: iniziare da un gesto. E poi non smettere più.