Con l’approssimarsi del 25 aprile, giorno della liberazione, si moltiplicano gli interventi che cercano di dare valore alla memoria storica anche in rapporto ai tristi tempi del presente.

Sinceramente non avrei aggiunto la mia voce alle tante più autorevoli della mia, se non ci fosse nel comune sentire qualcosa che da sempre mi lascia perplesso. 

Non mi riferisco tanto alla retorica di Stato, quanto piuttosto a coloro che della liberazione tendono a esaltare soprattutto l’aspetto militare. Ho letto in questi giorni diversi interventi (anche nei social) in cui si sottolineava come le città del nord (ma anche Napoli) fossero state liberate dai partigiani e non dall’esercito degli alleati. Per non dire dei nostalgici dell’URSS che rincarano la dose affermando che l’intero continente europeo si può considerare liberato innanzitutto dal sacrificio dell’Armata Rossa e dalla sua avanzata fino a Berlino.

A parte il mio personale orrore per la guerra e le armi, mi pare che in questo modo l’intero secondo conflitto mondiale finisca per essere letto come una unica e grande “guerra di liberazione”. Niente di più falso! La posta in palio sin dall’inizio delle ostilità era il controllo e il dominio, innanzitutto sull’Europa, e poi nel contesto della geopolitica globale. Esattamente come avvenuto nella prima guerra mondiale di cui il nuovo conflitto non rappresentava altro che la logica continuazione.

La stessa propaganda bellica degli alleati non parlava, a quei tempi, di alcuna volontà di “liberare i popoli”, né prendeva in particolare considerazione la condizione degli ebrei, la segregazione razziale e l’Olocausto in corso. Tanti bei discorsi che sarebbero venuti soltanto dopo la fine delle ostilità. 

Le truppe degli alleati che erano sbarcate nel nostro paese, e la loro aviazione che radeva al suolo le nostre città, non erano i nostri liberatori ma un esercito invasore, il cui unico obiettivo, come sempre in tutte le guerre, era quello di conseguire la vittoria. In sostanza se l’Italia non fosse mai entrata in guerra, nessuno avrebbe mai liberato nessuno, e dopo il conflitto avremmo fatto la fine della Spagna: un paese fascista amico degli Usa e membro della NATO.  

Va detto infine che, sul piano generale, la conseguenza più negativa di questa errata valutazione degli avvenimenti del conflitto mondiale è stata quella di avere avvalorato, anche per i tempi futuri, l’idea che la guerra possa anche avere un valore positivo e non essere soltanto uno strumento di morte e di distruzione. La falsa retorica della “guerra giusta” è giunta fino a noi in tante versioni, tra cui principalmente quella del conflitto che serve per “esportare democrazia”.

Se dunque ci interessa poco il significato “militare” della Resistenza (tra l’altro ininfluente per gli esiti del conflitto), qual è allora l’eredità che è oggi necessario preservare della lotta partigiana, perché ci accompagni nelle vicende del presente? Io credo che questo lascito di guida e di speranza possa essere sintetizzato definendolo come “lo spirito dell’antifascismo o della lotta di Resistenza”. 

Si dice spesso, e in questo caso molto giustamente, che la nostra Costituzione è figlia della lotta partigiana. Ciò che si percepisce leggendo la nostra Carta fondamentale, ancor più che gli stessi valori di libertà ed uguaglianza che vi sono espressi e che sono comuni alle Costituzioni di altri paesi, è per l’appunto quello che chiamiamo “lo spirito dell’antifascismo”; una chiara speranza di futuro, segnata dal fatto, sperimentato nella lotta di liberazione, che al potere e alla prepotenza ci si può sempre opporre; l’idea che la storia non è mai data una volta per tutte e che vi è sempre spazio per chi vuole riscriverla a partire dal basso e dalle esigenze degli oppressi e degli sfruttati.

I partiti che si erano ritrovati insieme a combattere il fascismo, rappresentarono i valori della Resistenza, in modo contraddittorio e per un periodo breve, abdicando poi progressivamente ai dettami della società a comando di capitale, anche se ancora per un lungo periodo fu possibile mantenere un alto livello di mediazione di classe, pur dentro le strettoie del sistema. Merito soprattutto di una soggettività diffusa e ribelle, in qualche modo idealmente erede dei valori della Resistenza, e che si espresse nei movimenti degli anni ‘50 e ‘60, e poi in quello che si può definire il lungo ‘68, protrattosi fino alla fine degli anni Settanta.

Oggi scontiamo il peso di una innegabile sconfitta e dell’imperante neoliberismo che sembra lasciare il mondo di chi subisce senza speranze. Ma non è così! Perché la speranza non dipende dal mondo com’è, ma dal modo con cui sappiamo giudicarlo e dalla volontà che riusciamo a mettere in moto per cambiarlo. C’è sempre spazio per il soggetto e per il suo agire “rivoluzionario” finalizzato al cambiamento. 

Questo è l’insegnamento che ci viene dallo spirito della Resistenza, e che dobbiamo oggi recuperare al di là delle celebrazioni, più o meno retoriche, dei fasti del passato (magari rievocato in senso puramente “militare”).