1. Gli annunci sui “successi” nel calo degli arrivi via mare in Italia, mentre aumentano quelli dalle rotte terrestri, e l’orrore diffuso sulle violenze commesse a bordo dei barconi abbandonati in mare per giorni, non possono occultare la dinamica dei fatti e la ricerca delle responsabilità sull’ennesima strage che si è verificata in prossimità del confine della area SAR italiana e dell’area SAR greca (37 34N 018 56E) nello Ionio, a circa 120 miglia dalle coste calabresi. Come è rimasta nascosto l’ultimo naufragio sulla rotta libica avvenuto poco prima del ritrovamento dei superstiti della ennesima strage che si è verificata nello Ionio, sulla cd. rotta turca.

Neppure tanto lontano dalla zona nella quale, poco più a sud si consumava, esattamente un anno fa, presumibilmente nella zona SAR greca, la strage di Pilos, sulla quale non si è ancora riusciti a fare giustizia. Una strage per la quale l’ufficio del Mediatore europeo ha sollevato gravi dubbi non solo sull’operato dei mezzi dell’agenzia Frontex ma anche sul comportamento delle autorità dei paesi membri ospitanti i mezzi della missione, Italia e Grecia.

 

2. Il 21 giugno un comunicato della Guardia costiera aggiornava il numero delle vittime : quel giorno sarebbero state recuperate 14 salme dalle navi Dattilo e Corsi della guardia costiera e fino ad allora le vittime accertate sarebbero state 34, e non 30 come comunicava la Prefettura di Reggio Calabria. Mentre secondo altre fonti sarebbero state addirittura 40. Una grande confusione continuava a caratterizzare la comunicazione dei luoghi di sbarco dei cadaveri, trasferiti a terra di notte, alcuni sbarcati persino a Messina, oltre che nei porti calabresi, tanto da rendere più difficile il penoso lavoro di riconoscimento dei corpi da parte dei parenti. I superstiti hanno parlato di 66 persone disperse, tra cui almeno 26 bambini, anche di pochi mesi. Intere famiglie fuggite dall’Afghanistan e dall’Iraq sarebbero morte. Nalina la più piccola dei superstiti di appena 10 anni, avrebbe perso l’intera famiglia. Ma ormai dopo le rituali dichiarazioni contro trafficanti e scafisti, nessuno si pone il problema di come evitare queste stragi: con l’aperura di canali di evacuazione e di ingresso legali che sottraggano queste persone alle violenze ed al taglieggiamento delle organizzazioni criminali che continuano a gestire il traffico di esseri umani, malgrado le solenni dichiarazioni elettorali dei capi di governo. Anzi, la distribuzione delle zone SAR nel Mediterraneo si rivela sempre più funzionale a facilitare respingimenti collettivi su delega, come si sta verificando sempre più spesso tra Italia e Libia. Ed allo stesso fine tende la recente istituzione di una zona SAR tunisina. Tra Italia e Grecia, l’area al limite delle rispettive zone SAR è stata da sempre un buco nero, anche per la inefficienza della zona SAR maltese ubicata appena più a sud, ed è l’area nella quale sono maturati i presupposti dei naufragi di Steccato di Cutro, e quindi, pochi mesi dopo, nel giugno del 2023, a sud di Pilos. Tra l’Italia e Malta rimane controversa persino la delimitazione delle rispettive zone SAR. Malgrado tra Italia e Grecia esista dal 2020 un accordo sulle ZEE (zone di sfruttamento economico esclusivo) con importanti intese per tutelare le attività di pesca degli operatori italiani. gli accordi tecnico-operativi sui soccorsi in mare rimangono a livello informale e sono comunque atti segretati. Non si conosce allo stato quale tipo di integrazione o coordinamento vi sia tra i servizi di ricerca e salvataggio dei due paesi. Che di certo ospitano entrambi missioni dell’agenzia europea Frontex, che vigilano su quell’area, come è emerso in modo drammatico in occasione delle stragi di Cutro e di Pilos. Eppure si tratta di una zona nella quale, oltre agli “eventi di immigrazione clandestina” ,si sono registrati da anni centinaia di interventi di soccorso delle unità militari italiane, interventi che negli ultimi anni sono stati circoscritti alle zone di mare più vicine alla fascia delle acque territoriali nazionali e della relativa “zona contigua”.

Malgrado le pressioni sui mezzi di informazione per nascondere persino la disseminazione dei corpi delle vittime in diverse località, impedendo quelle possibilità di memoria collettiva e di prossimità ai parenti, e quindi testimonianze dirette, che si erano verificate dopo la strage di Cutro, su questo ennesimo naufragio rimane una corposa documentazione raccolta da Sergio Scandura di Radio Radicale (Osservatorio OSINT) che assieme ai successivi rapporti pubblicati da alcune organizzazioni non governative, colma solo in parte un vuoto di informazione istituzionale che continua a caratterizzare le autorità marittime italiane fino ai più elevati vertici politici. Anche se il Piano Sar nazionale del 2020 imporrebbe una comunicazione puntuale e tempestiva sugli eventi di soccorso, e sulle attività di ricerca e salvataggio che ne derivano. Se è poco chiaro quello che è avvenuto dopo l’avvio dei soccorsi, rimane completamente oscura la dinamica degli eventi nei lunghi giorni, dal 13 al 16 giugno, nei quali, secondo i superstiti, l’imbarcazione sarebbe rimasta alla deriva in acque internazionali.

Alcuni mezzi di informazione riferiscono di un “giallo”, in quanto da parte delle autorità italiane sarebbe stato aperto il caso Sar numero 967 proprio in data 16 giugno, con riferimento adi una barca a vela in difficoltà nello Ionio, con 67 migranti a bordo, le cui coordinate sarebbero state fornite dai parenti. Una successiva segnalazione arrivava anche ad Alarm Phone, che la trasmetteva alle autorità italiane, e solo a quel punto si avviavano le attività di ricerca e salvataggio (SAR), che però non davano un risultato immediato. Sembra molto probabile, ma dovrà essere oggetto di accertamento, che si trattasse dello stesso caso. “Da quando la barca ha iniziato ad avere problemi”, avrebbe detto uno dei sopravvissuti, “ho visto morire ogni giorno tra le 10 e le 15 persone”. In attesa di soccorsi troppo lontani, arrivati troppo tardi.

 

3. Al di là della doverosa attività condotta nel recupero dei corpi in mare, a partire dal lancio di un messaggio di allarme SAR nelle prime ore del 17 giugno scorso, da parte di un diportista francese che aveva avvistato l’imbarcazione semisommersa su cui si trovavano i superstiti, rimane da chiedersi quali attività di ricerca siano state svolte dopo il primo allarme diffuso da Alarmphone il giorno precedente, e per quanto tempo i naufraghi sarebbero rimasti alla deriva, prima e dopo lo scoppio a bordo del motore della loro imbarcazione, causa di un parziale affondamento. Secondo quanto comunicato dall’ANSA, il 16 giugno scorso alcuni familiari dei naufraghi segnalavano ad Alarm Phone che una barca a vela con 67 persone, tra cui 20 bambini, si trovava in una situazione di pericolo tra la Grecia e l’Italia, una situazione che secondo queste prime chiamate veniva fatta risalire a tre giorni prima. Gli stessi parenti fornivano quindi le coordinate della barca che si trovava al limite delle acque SAR italiane. Secondo la stessa fonte, lo stesso giorno 16, AlarmPhone trasmetteva l’informazione alla centrale operativa (MRCC) della Guardia costiera italiana che lanciava un messaggio di emergenza a tutte le navi (Inmarsat), inviando sul luogo indicato dai parenti (che però era quello di tre giorni prima) un mercantile, una motovedetta classe 300 e un velivolo ATR 42. Nelle attività di ricerca venivano impegnati, oltre agli assetti aerei di Frontex, anche velivoli dell’operazione EUNAVFORMED IRINI, che ha il compito di pattugliare il Mediterraneo per contrastare il traffico di armi e solo occasionalmente impegnata in attività di contrasto dell’immigrazione irregolare. Mentre non risultano attività di salvataggio concluse da unità navali appartenenti a questa operazione, adesso a guida italiana, con lo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro in uno Stato dell’Unione europea. Secondo altre fonti le autorità italiane avrebbero saputo della presenza di una imbarcazione in difficoltà in acque internazionali, tra Italia e Grecia, già nella giornata del 13 giugno. Ma insipegabilmente per tre giorni non sarebbero state attivate operazioni di ricerca e salvataggio in una zona che pure era stata indicata con precisione. Le condizioni dell’imbarcazione semisommersa, poi individuata da un diportista francese, non lasciano dubbio sulle tragedie che si saranno consumate a bordo, magari per la sopravvivenza, tra persone aggrappate ad un relitto sovraffollato, abbandonato in alto mare.

Le prime ricerche avviate, per quanto risulta, il 16 giugno, nelle acque internazionali tra l’Italia e la Grecia non avevano successo ma, nella notte tra domenica 16 e lunedì 17, una imbarcazione da diporto francese individuava il relitto a circa 50 miglia NE dal primo punto segnalato, e recuperava 13 naufraghi (una persona moriva del corso delle operazioni). Queste prime informazioni danno adito a dubbi anche sulla mancata richiesta di soccorso da parte dei parenti dei naufraghi, che avrebbero allertato Alarm Phone con tre giorni di ritardo rispetto alle prime richieste di aiuto lanciate il 13 giugno da qualcuno, a bordo dell’imbarcazione alla deriva, dopo essere partita da Bodrum due giorni prima, che evidentemente era in possesso di un telefono satellitare, di cui normalmente dispongono gli scafisti ma non le persone migranti.

I superstiti, per quanto è filtrato dalle maglie strettissime delle attività di polizia (law enforcement) nel contrasto dell’immigrazione irregolare, hanno fatto sapere che per giorni sarebbero stati avvistati da imbarcazioni che non li avrebbero soccorsi. Ed è noto da tempo come l’area del naufragio, al limite tra le zone SAR di Italia e Grecia, sia sottoposta ad una stretta sorveglianza da parte delle autorità militari, con il concorso dei mezzi aerei dell’agenzia europea Frontex. Un dispositivo aero-navale, con un coordinamento politico e militare sia a livello italiano che europeo, al quale non è sfuggito neppure l’avvistamento del barcone poi naufragato davanti la spiaggia di Steccato di Cutro, un apparato istituzionale che rimane sottoposto ad attività di indagine da parte dei giudici che dovranno accertare le responsabilità di quella strage. Ma questa volta i corpi delle vittime, recuperati in mare grazie ad una assidua attività di ricerca operata per giorni dalla Guardia costiera italiana, sono stati distribuiti in diversi centri calabresi, come i superstiti possibili testimoni diretti, ed è stato più facile rimuovere dai mezzi di informazione tutte quelle notizie che avrebbero potuto portare all’accertamento di responsabilità. Un accertamento necessario per evitare che queste stragi per abbandono in mare si ripetano ancora, sempre più lontano dagli occhi del pubblico, e dai vertici politici che decidono sulle politiche di controllo dei “flussi migratori” e di “gestione integrata” dei controlli di frontiera.

 

4. Le acque internazionali non sono “di tutti e di nessuno”. E le aree di ricerca e salvataggio (SAR) che gli Stati hanno dichiarato non sono zone di giurisdizione esclusiva, ma aree di responsabilità condivisa. Secondo quanto previsto dalla Convenzione UNCLOS di diritto del mare, all’art. 98.2 ” Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali”.
In base al punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di emendamento introdotto nel 2004, e recepito nel Piano SAR nazionale, “la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.

In base al Considerando n.20 del Regolamento UE 1896/2019, “L’attuazione del presente regolamento non incide sulla ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri né sugli obblighi che incombono agli Stati membri in base alla convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, alla convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, alla convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, alla convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e al suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via nave e via aria, alla convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati, il relativo protocollo del 1967, alla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, alla convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status degli apolidi e ad altri strumenti internazionali pertinenti”. Le suddette Convenzioni internazionali diventano pertanto fonte di obblighi vincolanti ed inderogabili per tutti gli Stati dell’Unione europea.
Sono gli Stati membri dunque che hanno l’obbligo di istituire e mantenere adeguati servizi di ricerca e salvataggio, stipulando a tale scopo tutti quegli accordi che garantiscano il coordinamento più efficace per salvaguardare la vita umana in mare. Senza limitarsi a qualificare come eventi di immigrazione illegale da monitorare a distanza, eventi che richiedono l’avvio di una immediata attività di ricerca e salvataggio. Da tempo la Grecia ha stipulato un accordo con l’Egitto per la gestione coordinata delle rispettive aree di ricerca e salvataggio (SAR) allo scopo prevalente, dietro i consueti richiami ai soccorsi in mare, di impedire gli arrivi di potenziali richiedenti asilo ai confini europei.

 

5. Quali sono oggi gli accordi e quali le prassi di cooperazione operativa, tra Grecia ed Italia, che pure condividono una linea di confine delle rispettive zone di ricerca e salvataggio in acque internazionali che corrisponde ad una area nella quale si sono verificate diverse tragedie con centinaia di vittime? Come mai nessuno ha avvistato il veliero partito dalla Turchia, per tre giorni alla deriva al limite tra la zona SAR italiana e quella greca? Quali accordi di coordinamento operativo esistono in quell’area tra le autorità italiane e greche ? Cosa hanno segnalato i potenti radar di Frontex e dell’operazione IRINI di Eunavfor Med ?

Non aspettiamo risposte da parte delle autorità marittime e dai loro vertici politici, ma riteniamo che sia compito della magistratura accertare tutte le responsabilità, senza limitarsi a procedere soltanto nei confronti di presunti scafisti o trafficanti. Come sarebbe tempo che si verificasse dopo la strage di Steccato di Cutro, magari senza dovere attendere un decennio ed oltre per arrivare ad una sentenza, come si è verificato per la conferma in appello della sentenza del Tribunale di Roma che dichiarava prescritte le responsabilità che pure venivano accertate dopo la strage dell’11 ottobre 2013. Fare chiarezza su queste stragi, perchè non si può parlare di semplici naufragi, o di incidenti nel corso di “eventi di immigrazione irregolare”, è l’unico modo per impedire che in futuro possano continuare a ripetersi, con conseguenze ancora più gravi.

Appare sempre più evidente come “chiusa” una rotta migratoria, se ne aprano immediatamente altre, ancora più pericolose per le persone in fuga, costrette all’attraversamento irregolare del mare, o delle frontiere terrestri, per la mancanza di canali legali di ingresso. Dopo il contenimento delle partenze dal Nordafrica, affidato in Tunisia all’autocrate Saied, e delegato in Libia alle milizie, si ritorna a registrare un aumento delle traversate dalla Turchia verso l’Italia. Forse anche un effetto dei nuovi assetti geopolitici nel Mediterraneo. Una rotta battuta in particolare da persone che provengono da paesi nei quali sono esposti a gravi persecuzioni e che in nessun caso potrebbero essere definiti come “paesi di origine sicuri”, basti pensare alla Siria, all’Iraq, all’Iran, all’Afghanistan, dunque persone che dovrebbero avere la possibilità di un ingresso legale in Italia, e quindi in Europa, quantomeno per motivi umanitari, per richiedere asilo, ma alle quali si arriva persino a negare il diritto al soccorso.

Oltre alla necessità urgente di un sostegno europeo alle operazioni di ricerca e soccorso, è fondamentale, come rilevano Unhcr, Oim e Unicef – promuovere un più ampio accesso a percorsi sicuri e regolari nell’Unione Europea per le persone migranti e rifugiati, affinché non siano costrette a rischiare la vita in mare“.

pubblicato anche su A-dif