C’è un’espressione che ci riporta alla mente il passato che vorremo volentieri cancellare, “Guerre dimenticate”.

Sono le parole che vengono alla mente ogni volta che la cronaca delle crisi che scoppiano in ogni angolo del pianeta ci costringe a ricordare una strage, a inorridire per un bambino che muore sotto i colpi di un’arma da fuoco o per la recrudescenza dell’odio e delle vendette che inevitabilmente tornano a sporcare di sangue le strade di una città in cui venti o trent’anni fa imperversava un conflitto spietato. E’ il seme della guerra che produce, inesorabilmente, i suoi frutti tardivi.

Penso spesso, a distanza di tanti anni, alla guerra dei Balcani e mi sembra che, benché seppellita dalle crudeltà del nuovo secolo, sia sempre lì, pronta a riportare davanti alle porte di casa il fuoco e il sangue di quei giorni. E’ stata così brutta e improvvisa (esistono guerre che non lo sono?) che è difficile da dimenticare e mi dà sempre la sensazione che chieda il saldo di un conto aperto trent’anni fa. Purtroppo è vero, sono molti anni che non c’è più un attimo di vera pace e l’estensione e la potenza dei conflitti moderni dimostra che non esistono più guerre locali o confini invalicabili; il sogno del Novecento pacificato è finito da un pezzo. Siamo tutti in ballo, legati, nel destino, l’uno all’altro in un mondo detto “globale”, oggi più che mai, anche se vogliamo dimenticarlo. E l’Europa sta tradendo il suo profilo storico di civiltà, il suo “mai più” detto a denti stretti dopo l’Olocausto.

Chi, come noi, usa il cinema politico (quello che poeticamente chiamiamo Cinema dei Diritti Umani) per raccontare storie di oppressione e lotte di resistenza, cerca affannosamente storie del passato per ricordare che una guerra non è mai una soluzione, ma anzi è un motore inarrestabile di odio, di crimini senza giustizia che pone le basi di nuova violenza. Non smettiamo di scrutare la letteratura e l’arte per individuare i fermenti di focolai mai sopiti e di prospettive di conflitto, per dimostrare che la pace va coltivata soprattutto quando la guerra non imperversa, quando c’è tempo per pensare ed agire. E il cinema offre splendide risposte alla nostra sete di storia.

“Sniper Alley – To My Brother”, il film che è l’ultima fatica di Creative Motion, giunge in un momento storico davvero critico e difficile, come da tanto non se ne vedevano; ci racconta la sua verità, la sua lezione di storia, partendo da quella Sarajevo che fu un tempo crogiolo di culture secolari e poi, improvvisamente, negli ultimi anni del secolo scorso, divenne il luogo dell’ira funesta, dell’intolleranza spietata, del nazionalismo più folle.

Ascoltare la storia del giovane (allora) Džemil che vide il fratellino sedicenne Amel cadere mentre giocava a tennis, ucciso da un cecchino che si appostava tutti i giorni sul corso di Sarajevo per eliminare qualunque forma di vita transitasse, mi convince sempre di più del fatto che il cinema può darci testimonianze indelebili del nostro tempo, può scrivere un libro di storia che scuote gli indifferenti e accomuna il presente al passato, richiamandoci al dovere di pensare.

Le immagini di “Sniper Alley” ci spiegano come la pace sia importante cercarla in ogni momento della nostra esistenza, come il bene comune più prezioso e difficile da mantenere. La storia di questo film è semplice, terribilmente lineare e ci racconta che i bambini sono da sempre le vittime preferite dei conflitti, dell’odio, delle vendette più atroci. Esattamente come accade agli israeliani, convinti di trovare nei palestinesi il nemico da eliminare, che hanno messo a punto tecniche di carcerazione e tortura per i bambini arabi o come i soldati russi che cercano di cancellare l’identità del popolo ucraino, rubando e deportando decine di migliaia di bambini che abitavano nelle terre di confine della Crimea e del Donbass, per plasmarli come russi natii.

Anche la guerra dei Balcani ci insegnò, se ancora non l’avevamo capito, che la distruzione del nemico passa per la cancellazione degli archivi anagrafici e dell’identità formale delle persone, prima ancora che attraverso i bombardamenti. Cancellare gli archivi anagrafici o uccidere i bambini è più offensivo che radere al suolo i villaggi o sperimentare nuove armi di sterminio di massa, perché toglie la speranza del futuro al popolo “nemico”.

C’è qualcosa, in questa assurda considerazione, che ricorda la ferocia dei militari argentini della dittatura degli anni 70, che aspettavano che le madri dissidenti partorissero in carcere i loro figli e poi le eliminavano, affidando quei bambini ignari a coppie di collaborazionisti compiacenti. Era un modo di costruire un nuovo futuro, più puro e asettico, un orizzonte dove “l’altro” non era previsto. C’è qualcosa, in queste decisioni chirurgiche, che richiama le tecniche di “lupara bianca” che le moderne mafie utilizzano per distruggere i loro avversari inermi, ma pericolosi. Li eliminano senza ucciderli, annientandone l’identità, diffamandoli e accusandoli del contrario di quello che hanno fatto, per ridicolizzarli e stimolare nell’opinione pubblica, opportunamente narcotizzata da media compiacenti, il dubbio e l’infamia della calunnia. E queste tecniche sono quelle più letali, quelle che funzionano meglio; anche quando vengono smascherate, lasciano scie di danni irreparabili, ferite profonde che difficilmente si rimargineranno. Sono crudeltà che seminano radiazioni letali allo stesso modo di un ordigno nucleare. Sono prove inconfutabili di come l’identità, dei luoghi e delle persone, faccia la storia.

“Sniper Alley” è il famigerato viale dei cecchini di Sarajevo dove, durante la guerra dei Balcani, cadevano ogni giorno come birilli, colpiti in fredda sequenza, le persone inermi che provavano a dare una parvenza di normalità alle loro vite. Gente che continuava a fare la spesa o a far visita ai parenti, agli amici, come se tutto fosse normale. Avevano la guerra in casa, ma non volevano accettare di fermarsi e vivere chiusi nei loro appartamenti. Il cecchino che li aspettava ogni mattina appostato sul terrazzo del palazzo di fronte era una specie di esattore che gli ricordava che la guerra c’era e non andava via, nemmeno quando eri sul balcone di casa, immerso nei tuoi pensieri e innaffiavi i fiori o prendevi un caffè. La guerra chiedeva il suo pizzo, la sua tangente.  La guerra dentro; dentro le stanze, dentro i giochi dei bambini, dentro i pensieri, quella più difficile da dimenticare ed evitare.

Abbiamo accettato volentieri l’invito di Cristiana Lucia Grilli e di Francesco Toscani a sostenere il loro film, che ripercorre le ansie di quegli anni attraverso il ricordo del piccolo Amel, ucciso mentre giocava a tennis col fratello che oggi ha costruito in sua memoria un museo di immagini. E’ una storia contro la guerra che in questi anni di nuove e lucide follie, fa bene ascoltare. Riflettere su un ricordo è più tranquillo che guardare le immagini vivide di Gaza e di Kiev, perché gli occhi di Džemil parlano alla nostra mente come un segno di speranza che viene da lontano e sembra dirci che tutto questo non avverrà più. E invece sappiamo che una nuova Sarajevo è già qui, e che abbiamo fatto poco o niente per evitarla.

E allora ben venga il Cinema dei Diritti Umani a farci compagnia, a far parte della nostra vita e della nostra cultura, ben vengano quei volti segnati dal dolore, ma anche gli occhi di speranza di chi racconta la storia ai bambini, ai giovani e non ne fa mistero, senza quel pudore reverenziale che concediamo alla morte, perché sappiamo che questo rituale è parte della nostra vita e che possiamo celebrare la vita solo impegnandoci ogni giorno nel ricordo e nella resistenza.

La pace non è assenza della guerra, ma è impegno per conoscerla e ripudiarla, non solo con le parole e le solenni affermazioni, ma con l’agire quotidiano, come si innaffia un vaso di fiori o si beve una tazza di caffè. Dobbiamo ancora apprendere a costruire la pace dentro le nostre vite e questo film ci aiuta a farlo.