Un velo grigio sembra ricoprire Kathmandu quando la si vede dall’oblò. Atterrati si constata che non è nebbia, ma inquinamento. Kathmandu è una delle città più inquinate del mondo, complice la collocazione in una conca e lo sviluppo della motorizzazione civile. Uno sfrecciare continuo di moto che fanno lo slalom tra i pedoni, piccole auto coreane e cinesi e vecchie Api riconvertite a taxi collettivi. Un ingorgo continuo.
A parte questo Kathmandu è una città meravigliosa, immersa in una contenuta spiritualità che accompagna la vita di uomini e donne nepalesi e resa manifesta dell’onnipresenza di templi e tempietti, indù, buddisti, indo-buddisti, dedicati a un vasto pantheon di dei, compresa una dea vivente. Ci sono più tempi a Kathmandu che chiese a Roma, in un paese in cui ancora si celebrano matrimoni misti senza che uno dei due coniugi debba cambiare religione.
Un paese governato da un fronte di sinistra, marxisti leninisti e maoisti inclusi, ma dove la privatizzazione dell’istruzione e della sanità imposta dal Fondo Monetario Internazionale si percepisce per strada dall’enorme numero di cliniche e scuole private e agenzie per lo studio all’estero e dove gli abitanti delle baracche sulla riva del fiume sono minacciati da sfratto collettivo in onore del processi di “beautification” della città imposto dalla nuova vocazione turistica suggerita dalla Banca Mondiale, come via di sviluppo dopo la ricostruzione in grandissima parte dal terremoto del 2015.
Kathmandu accoglie così, dal 15 al 19 Febbraio, con le sue contraddizioni e grazie a una potente mobilitazione di forze sindacali e alla NGO Federation of Nepal – migliaia di ONG affiliate che operano in tutti i campi, quasi un apparato statale – le migliaia di attivisti convenuti qui da tutto il mondo e soprattutto dall’Asia meridionale. Forse più che un Social Forum Mondiale, infatti, questo è stato un Forum continentale: dal subcontinente indiano erano presenti veramente in massa, delegazioni numerose, fatte di attivisti, ma anche di semplici partecipanti ai tanti movimenti sociali che animano la vita politica del Nepal, dell’India, del Pakistan, dell’isola di Ceylon, del Bangladesh. E poi presenze, sia pure più limitate, dalle Filippine, dalla Corea, dall’Africa. Pressoché simboliche le presenze europee e americane.
Dall’Italia, oltre a Un Ponte Per, erano presenti Legambiente, impegnata dal network in difesa delle montagne di alta quota, oltre all’ Unione Inquilini e qualche organizzazione locale.
Sono stati tre giorni di discussioni molto seguite, conferenze, presentazione di progetti, convergenze su azioni comuni: oltre 400 incontri su un arco molto ampio di tematiche tutti di alto livello e molti che riportano lotte sociali.
Come nello stile dei Forum Sociali nessuna conclusione ufficiale, ma tante dichiarazioni su temi diversi che nel loro insieme compongono di fatto il programma politico dell’alternativa possibile.
Il forum era organizzato in un parco nel centro della città, con gradi tendoni che accoglievano i seminari, intorno ad una grande piazza centrale contornata di piccoli stalli che offrivano cibo, prodotti di artigianato locale, il più delle volte legati a progetti di rafforzamento dell’autonomia economica femminile, oltre a materiale di documentazione su attività e tematiche. Una organizzazione spaziale che favoriva lo scambio e l’incontro tra le persone che hanno brulicato quello spazio spostandosi tra un seminario all’altro.
Qui la parola socialismo è ancora pronunciata con un senso forte, ma più ancora pronunciata è la parola colonialismo che ricorre sistematicamente e in diverse forme e aggettivazioni in quasi tutti i dibattiti. Quello che l’Europa ha messo sotto il trappeto facendo finta di dimenticare da dove viene la propria ricchezza, qui è ancora sopra il tavolo e attende di essere affrontato. Ne è stato un esempio il seminario sulla “Decolonizzazione dell’aiuto allo sviluppo” a cui come Un Ponte Per abbiamo partecipato nel percorso di preparazione di una campagna per la istituzione di una giornata della memoria delle vittime del colonialismo.
“Non vogliamo più il vostro aiuto né sottostare alle condizionalità che imponete per concederlo, tra cui la riconoscenza” è stato detto “dovete invece ancora riparare il danni della colonizzazione cui si aggiungono quelli del debito climatico”; “… devono essere i riceventi e non i cosiddetti donatori a decidere dove come e quando allocare i fondi”. Una posizione radicale soprattutto contro gli aiuti di Stati e della Banca Mondiale che spesso comportano l’obbligo di privatizzazione e liberalizzazione delle economie.
Ma anche le Ong occidentali non sono state risparmiate. Il sud, almeno questo sud presente qui, che è cresciuto e ha fatto rete grazie al processo dei forum sociali mondiali, è consapevole di non aver bisogno di andare a lezione dagli europei e di saperne spesso di più dei “ragazzini che, senza conoscenza specifica del luogo, arrivano qui e pensano di poter dare direttive”. Risulta chiaro qui che il rapporto tra le Ong del nord e quelle del sud deve cambiare.
Anche il cambiamento climatico, altra tematica pervasiva; come pervasivo è ormai il danno che le popolazioni di questi continenti subiscono e prevedono di subire a seguito del continuo innalzamento del clima, prevalentemente causato dall’industrializzazione europea e statunitense che hanno scaricato nell’atmosfera una quantità di gas serra molto superiore a quella che gli sarebbe “spettata” in un modo equo. Qui il tema del riscaldamento climatico non è solo questione delle politiche da seguire per evitare il continuo crescere della temperatura, aspetto sul quale l’impegno dei movimenti sociali è molto alto, ma è anche un tema di giustizia climatica che reclama l’esistenza di un debito ecologico dell’occidente verso il sud globale che deve essere saldato e che si aggiunge al debito coloniale.
La guerra invece non è stato un tema molto trattato. L’impressione è che la guerra in Ucraina è dai più considerata una piccola guerra intra-europea, “inter-bianca”, con un certo fastidio nei confronti di entrambi i contendenti, la Nato e la Russia. Gli occhi sembrano piuttosto puntati con preoccupazione sul Mar Cinese Meridionale, come il luogo in cui si rischia lo scoppio della guerra globale, quella tra l’Occidente e la Cina.
Naturale e unanime identificazione invece con la lotta del popolo palestinese, contro la decennale occupazione. È una solidarietà spontanea tra ex colonizzati e colonizzati, anche con qualche sporadico eccesso. Comunque, la bandiera più sventolata in questo forum è stata la bandiera palestinese, una bella differenza con i precedenti incontri nei quali il Forum aveva tenuto un atteggiamento più prudente, non prendendo posizione e ritenendo la questione almeno in parte controversa. I danni che Netanyahu ha fatto all’immagine di Israele e del popolo ebraico, misurati qui e cioè presso la grande maggioranza della popolazione mondiale, sono incalcolabili.
Qui ci si rende conto davvero quanto la popolazione bianca del globo sia un’eccezione, in una popolazione in gran parte colorata e di come l’Europa sia un’area marginale. E di questa nostra piccolezza sarà bene ci rendiamo conto.