Di fronte alle elezioni avvenute in Russia e alla notizia della schiacciante vittoria ottenuta da Putin, i politici e i media occidentali si sono scatenati gridando allo scandalo, alla truffa e all’imbroglio elettorale.

Chiariamo subito che da parte nostra non vi è alcuna simpatia per un oligarca come Putin, e per le sue politiche autoritarie e guerrafondaie, ma la valutazione dei risultati elettorali è altra cosa. Giusto per capirci, e venendo a questioni di casa nostra, anche nei confronti del governo Meloni la nostra opposizione è radicale e senza appello, a partire dall’asservimento alle logiche di guerra di USA e NATO, fino a proposte come il premierato e l’autonomia differenziata che stanno facendo a pezzi la nostra Costituzione. Eppure nessuno si sogna di inventarsi che l’attuale governo italiano è illegittimo perché frutto di brogli elettorali

Partire dalla consapevolezza che “il nemico” (o l’avversario) possa avere, in un determinato momento, un largo consenso popolare non è solo un modo per valutare quali sono le scelte più giuste da fare, ma anche una questione di onestà intellettuale.
È naturalmente del tutto ammissibile criticare gli strumenti di propaganda e di coercizione sociali che hanno portato al determinarsi di un clima politico favorevole al consenso nei confronti di chi vince la contesa elettorale, ma non è altrettanto lecito negare che alla fine l’esito può essere quello di un reale consenso nei confronti dell’uomo o del regime che stanno al comando. Di fronte ad un risultato elettorale sgradito, però, questa presa d’atto dei numeri è un lusso che l’Occidente non si può permettere, e le ragioni sono molto chiare.

Fin dalla fine del secondo conflitto mondiale gli Stati Uniti e i loro alleati (e sudditi) sparsi per il mondo, europei compresi, hanno fondato la loro propensione al dominio e al controllo militarizzato dell’ordine globale sulla pretesa della superiorità del loro sistema sociale fondato sul mito della democrazia occidentale, che doveva essere esportata nel resto del pianeta. Il presupposto di ogni guerra e di ogni aggressione è stato dunque, e sempre, quello che il nemico era rappresentato esclusivamente da un dittatore o da una dittatura che opprimeva un popolo che non aspettava altro che di essere liberato per godere dei benefici del benessere occidentale.

Il mito della democrazia poggia sull’idea che il criterio di maggioranza non serve solo a designare chi è legittimato a governare ma anche a stabilire chi ha ragione di fronte alla storia. Ciò significa che quando il vincitore è un farabutto, o qualcuno che semplicemente non è in sintonia col nostro sentire, il popolo e la sua maggioranza, in quanto riferimento mitico e non storicamente reale, non possono essersi sbagliati, o magari avere soltanto espresso un parere diverso, ma di certo sono stati ingannati, o peggio, i dati elettorali devono essere stati falsificati.

Queste vicende che mettono in discussione non solo i modi e le forme della democrazia, ma più in generale i valori e le strutture dell’ordine sociale, sono il prodotto di quella ideologizzazione ed assolutizzazione della guerra che è un carattere tipico della contemporaneità, affermatosi in modo definitivo con i conflitti globali del secolo scorso. Una volta la guerra serviva per risolvere le controversie internazionali e aveva un carattere rituale che non prevedeva l’annientamento dell’avversario.

Oggi la guerra viene concepita come contrapposizione globale e inconciliabile tra mondi contrapposti. Un vero e proprio scontro di culture politiche e di civiltà, il cui esito non può essere la sola vittoria, ma deve implicare il definitivo annientamento e la cancellazione dell’altro e delle sue ragioni, concepiti non come il darsi del proprio nemico, ma come il nemico non correggibile dell’intera umanità. Il compromesso e la mediazione sono termini da cancellare dal vocabolario. In guerra tutto è concesso, anche falsificare un risultato elettorale.