Riprendiamo parte del lungo “speciale” del giornale autogestito ZIC-Zeroincondotta, il quale descrive – a partire da Bologna e dai fatti registratasi nella scorsa settimana a Pisa e Firenze – un quadro delle misure repressive sempre pronte a scattare ogni qual volta il conflitto sociale prova ad esprimere il proprio dissenso contro l’ordine costituito: «Alcuni hanno il compito di educare … noi il dovere di reprimere. La repressione è civiltà», così recitava Gian Maria Volontè nel film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri: parole che – scrive il giornale autogestito – «sembrano fatte apposta per personificare il volto truce dell’attuale governo contro i più deboli e chi si oppone»_

 

I manganelli di Pisa e Firenze

Quando il ministro dell’Interno Piantedosi nei giorni successivi alle manganellate di Pisa e Firenze ha dichiarato «non abbiamo cambiato le regole sull’ordine pubblico», non ha detto qualcosa di strampalato. Infatti, nelle due città toscane, allo stesso modo di come era avvenuto in tante altri parti d’Italia nelle settimane precedenti, si sono verificati attacchi violenti della polizia a cortei e presidi. E quante volte questo è accaduto negli ultimi decenni?

Non appena un movimento sociale, soprattutto giovanile, nella sua fase embrionale, comincia a esprimersi nello spazio pubblico l’apparato repressivo dello Stato diventa il suo primo “interlocutore”. È dalla seconda metà degli anni Settanta che il conflitto sociale è sempre più diventato un tema di ordine pubblico, da affrontare con le truppe in divisa, i manganelli e le cariche nelle strade e nelle piazze. Un tema che la stampa mainstream ha quasi sempre trattato come un retaggio antistorico, di un passato tragico, coniando improvvidi paragoni con lo spauracchio dei cosiddetti “anni di piombo”.

Sono decenni che chi esercita funzioni di governo ritiene incompatibili le lotte e, a volte, anche il semplice dissenso con le necessità di conservare l’ordine sociale dato. La “democrazia del sistema politico” è ormai ridotta a semplice amministrazione dell’esistente. C’è un’acclarata incapacità istituzionale ad entrare in relazione con i movimenti e con il conflitto sociale autonomo.

Quindi la repressione e la violenza dello Stato sono strutturali e hanno una matrice identificabile e profonda, che nessuno ha mai voluto estirpare.

L’Italia è il paese che avuto la mattanza di Genova nel 2001. Le giornate delle mobilitazioni contro il G8 sono state lo specchio della violenza ramificata e perfino dominante tra il personale delle forze dell’ordine italiane. Nella violenza dei poliziotti contro le/gli studentesse/i a Pisa in diversi hanno visto la “funzione intimidatoria” che gli uomini in divisa avevano esercitato più di vent’anni prima nelle strade e nelle caserme del capoluogo ligure (soprattutto nei confronti dei più giovani). Per fortuna, a qualcuno è venuto in mente che quello che si è verificato in queste settimane non è stata un’eccezione, ma è in continuità con molti avvenimenti del passato recente.

Del resto, se scorriamo rapidamente l’elenco dei ministri dell’Interno dal 2001 ad oggi (Scajola, Pisanu, Maroni, Alfano, Minniti, Salvini, Lamorgese, Piantedosi) diventa difficile trovare una qualche differenza in positivo. Così come è bene ricordare che i vertici delle forze dell’ordine, processati per i fatti di Genova nel 2001, hanno tutti fatto carriera nei dieci anni successivi al G8.

Tra l’altro, qualcuno ha fatto notare che il questore di Pisa è stato tra i responsabili dell’ordine pubblico proprio a Genova nel 2001. E durante la conferenza stampa per i sei divieti di dimora richiesti dalla procura della Repubblica contro attivisti dei Municipi sociali (Làbas e Tpo) è stato detto che anche l’attuale questore di Bologna ha svolto un ruolo nelle giornate del luglio 2001.

 

I divieti di dimora di Bologna

Quello che è avvenuto a Bologna il 27 febbraio è altrettanto grave rispetto a quello che è successo a Pisa il 23. Sei ragazze e ragazzi che avevano partecipato all’occupazione per scopi abitativi di uno stabile di proprietà di un ente religioso in via Mazzini sono stati accusate/i di avere resistito all’atto di forza della polizia e perciò sottoposte/i a divieto di dimora in tutta l’area della città metropolitana bolognese. L’episodio da cui scaturisce il provvedimento risale a diversi mesi fa, l’immobile occupato era stato trasformato in una residenza collettiva per lavoratori e lavoratrici, migranti, studenti e studentesse. A fronte di una situazione abitativa drammatica che colpisce soprattutto le fasce più deboli della popolazione, quella occupazione così come altre presenti in città, cercava di realizzare una rete di solidarietà attiva e di mutuo soccorso attraverso la quale si cercava di resistere collettivamente alle conseguenze della precarietà e ai costi di una città sempre più tarata agli standard di vita delle categorie economicamente tutelate.

Le/i giovani attiviste/i, considerate/i “individui socialmente pericolosi” si sarebbero macchiate/i di una colpa imperdonabile: la solidarietà nei confronti degli ultimi, l’organizzazione di attività di mutuo soccorso, la promozione dell’auto aiuto tra persone in difficoltà, ricorrendo alla lotta e non alla carità per affrontare i problemi legati al disagio sociale che tante persone sono costrette a subire.

Bologna è piena di uomini e di donne, di ragazzi e di ragazze che pur lavorando o studiando vivono in condizioni di estrema precarietà a causa della mancanza di alloggi a prezzi raggiungibili. Ma Bologna è piena anche di immobili abbandonati, spesso di proprietà di multinazionali, banche, imprese immobiliari, enti religiosi, tutti in attesa di speculazioni. Mentre questa “compagnia della rendita” alimenta quote impressionanti di “indifferenza sociale, un enorme patrimonio immobiliare, abbandonato da anni o addirittura da decenni, diventa fatiscente e sgretola, trasformandosi in un rifugio di polvere, rifiuti e rovine.

Quelle e quelli che occupano hanno il merito di rendere visibili i fantasmi di mattoni e cemento a cui rischiamo di abituarci: se un edificio, un palazzo o un condominio sono parte integrante di una città, di una comunità, quando vengono abbandonati o lasciati cadere a pezzi, producono loro sì il degrado di cui tanto si parla. Non sono i comportamenti delle persone.

Le/gli occupanti, però, non solo cercano di frenare il degrado urbanistico, cercano di sperimentare nuove forme dell’abitare collettivo, dell’aiutarsi reciprocamente, e di ridare vita a luoghi morti della città.

Ma tutto questo non viene mai riconosciuto e chi occupa, in questo caso come in altri casi, si può beccare la nuova forma di esilio: cioè il divieto di dimora dal luogo dove per anni o da sempre ha dimorato. Una misura particolarmente odiosa disponibile nel codice di procedura penale, e che ricorda da vicino l’allontanamento coatto degli oppositori al regime fascista: le sei persone colpite sono, di fatto, mandato al “confino”, né più né meno.

Il divieto di dimora rientra tra le “misure cautelari personali non custodiali“. Si tratta, infatti, di una forma di privazione o limitazione della libertà di circolazione.

Il divieto di dimora consiste nella proibizione di dimorare in una determinata località e nella prescrizione di non accedervi, senza preventiva autorizzazione del giudice (art. 283, comma 1, Codice di procedura penale). Questa misura ha la sua ratio nell’allontanamento di un soggetto “per evitare inquinamento delle prove o la reiterazione del reato” (ma nella maggior parte dei casi in cui è stato utilizzato in ambito di conflittualità sociale, il provvedimento è stato adottato a diversi mesi di distanza da quando i fatti sono avvenuti, e la logica con cui viene applicato è quella di allontanare le figure più attive o che maggiormente si sono messe in mostra).

Il divieto di dimora implica, poi, una vigilanza dell’ufficio di polizia territorialmente competente. Altro aspetto importante, la misura cautelare in questione, non è computabile come detrazione in un’eventuale pena definitiva che dovrà essere espiata.

Il divieto di dimora viene anche considerata come misura di prevenzione, che può essere aggiunta alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, nei casi di “particolare pericolosità e di ritenuta inidoneità delle altre misure di prevenzione”. In questo caso, rivive il vecchio “domicilio coatto” o “confino”.

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