L’altra sera, a Napoli, sono stato spettatore (e co-organizzatore) di un evento a cui hanno partecipato alcuni componenti della delegazione italiana tornata da Rafah, dove centinaia di migliaia di palestinesi stanno morendo letteralmente di fame, di sete e di malattie. Avevo voglia di ringraziare un gruppo di nostri connazionali che hanno lasciato il Parlamento e le loro famiglie per dimostrare che non tutti i politici italiani accettano le posizioni del governo e che tra di loro c’è chi ha voluto scrivere a chiare lettere “Not in my name!” sulla nostra bandiera nazionale. Lo giudico un gesto dignitoso e degno di rispetto.

Ancora di più ho voluto ringraziare i giornalisti e gli attivisti di Ong e associazioni che li hanno accompagnati, esprimendo la rabbia civile di tanta parte della nostra società che, in differenti forme, ha voluto testimoniare il dissenso del nostro popolo dalle posizioni delle istituzioni centrali. E’ stato un gesto simbolico, eppure mi appare coraggioso.

L’evento, ospitato dal Comune di Napoli nella Sala Convegni della Città Metropolitana e promosso dall’on. Dario Carotenuto dei 5 stelle, ha visto la presenza di alcuni altri parlamentari (Arturo Scotto – PD -, Carmela Auriemma  – 5 stelle, Franco Mari – AVS), di Alfio Nicotra, che è stato il promotore del viaggio, co-presidente di Un Ponte per e delegato delle Ong Italiane (AOI), dell’inossidabile Luisa Morgantini di Assopace Palestina e della relatrice speciale dell’ONU per i Territori occupati, Francesca Albanese, instancabile testimone del lavoro delle Nazioni Unite per la difesa del Diritto Internazionale.

Il dibattito, introdotto dalle immagini delle scorte che giacciono bloccate al valico di Rafah, è stato chiaro e lineare e ha evidenziato, soprattutto nelle relazioni di Scotto e Carotenuto, il vuoto doloroso che si è aperto tra la politica di governo di alcuni Stati e il rispetto del Diritto Internazionale, più volte richiamato dalla Albanese. Se per un attimo stacchiamo gli occhi dalle oscenità della distruzione di un popolo inerme, dal genocidio a cui assistiamo impotenti, ci appaiono evidenti le contraddizioni dei governi europei e occidentali, che si dicono fiduciosi nella Pace, ma che continuano a sostenere gli armamenti di Israele, negando lo spirito che dovrebbero rappresentare in nome della nostra Costituzione. E così accade anche negli altri paesi europei.

Le file interminabili di camion carichi di aiuti umanitari inviati da tutto il mondo che vengono lasciati marcire al sole del deserto sono l’immagine più sprezzante della sfida di impunità che il governo di Tel Aviv lancia al resto dell’umanità. Altrettanto umiliante è il silenzio della diplomazia europea, che non riesce neppure a balbettare per strappare alla strage i quasi due milioni di palestinesi stipati alla frontiera con l’Egitto, dopo essere stati scacciati dalle loro case e trascinati in una fuga straziante.

Eppure la domanda che è venuta spontanea a ognuno dei presenti è: si può fare qualcosa per fermare la strage? Possiamo ancora incalzare le nostre istituzioni e quelle europee per impedire che queste palesi contraddizioni, questa obbedienza tacita all’amico americano generino altra morte e indifferenza?

I componenti politici della delegazione, all’apertura del dibattito, sono stati investiti da una raffica di dubbi laceranti sulla necessità di esprimere un netto distacco da tutti coloro che continuano, nel nostro Parlamento nazionale, ad usare l’ipocrisia dell’atlantismo per favorire Israele, alleato del nostro Paese in tanti campi della cooperazione industriale, scientifica, militare, economica. Le polemiche più stridenti sono state quelle avanzate dagli studenti della Federico II che, solo pochi giorni fa sono stati rampognati dal Presidente della Repubblica per avere cacciato dalla loro Università il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, emblema del sionismo e simbolo della cooperazione scientifica che Israele ha stabilito con molti atenei italiani, una sinergia che spesso produce, a detta degli studenti, inquietanti risultati di uso militare.

Avevo già ascoltato queste tesi quando, nell’edizione 2021 del nostro Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, avevamo ospitato alcuni giovani del movimento studentesco torinese che, opponendosi al progetto dell’Alta Velocità in Val Susa, ci spiegarono che una parte della loro resistenza era anche dovuta ai possibili sviluppi in campo militare dell’opera, a cui non erano estranee potenze militari occidentali che avevano anche stabilito accordi di collaborazione scientifica col Politecnico di Torino. Furono loro a ipotizzare per primi l’uso della ferrovia ad Alta Velocità come canale preferenziale per il trasporto di armi verso il confine orientale dell’Europa. Non a caso la linea NO TAV doveva collegare Lisbona a Kiev e oggi questo asse assume una tragica evidenza. Lo dimostravano, pure, le insistenze dei governi europei a fronte della manifesta mancanza di uno scopo pubblico dimostrabile e di una corretta analisi economica dell’investimento necessario per la realizzazione della tratta. Non a caso, pochi giorni fa, l’Università di Torino è stata la prima a dissociarsi da quel genere di collaborazioni.

E anche in quel caso, proprio in quelle giornate di Festival, il direttore di Repubblica aveva scatenato una feroce polemica contro il movimento NO TAV, accusandolo di terrorismo degno delle Brigate Rosse, ricevendone in cambio centinaia di esposti alla magistratura torinese. Ricordo ancora le file dei cittadini valsusini indignati che aspettavano, davanti al Tribunale di Torino, di depositare il loro esposto contro Molinari.

In molti, l’altra sera, raccogliendo la denuncia dello studente napoletano, hanno chiesto un taglio netto, politico e ideale, da quella parte di Parlamento che non ha il coraggio di decidere da che parte stare. In questo, forse, le accuse ai parlamentari presenti sono state ingenerose perché, lo ripeto, provo riconoscenza per questo gesto che ha portato, al fianco dei palestinesi che soffrono, un pezzo simbolicamente rilevante del nostro popolo. Ma d’altro canto non posso dimenticare le parole degli studenti torinesi, che mi aprirono la mente a una riflessione che non aveva nulla di farneticante e anzi oggi, dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina, assumono un carattere drammaticamente profetico.

Credo che l’incontro dell’altra sera, segnato da polemiche e da dubbi, abbia riacutizzato lo scontro tra la necessità di richiamare la politica al rispetto dei principi del Diritto e alle raccomandazioni della Corte di Giustizia Internazionale, ma abbia anche sortito una semplice proposta che forse, nel clamore della discussione, è stata sottovalutata.

E’ stato Omar Suleiman, capo della comunità palestinese napoletana, a formularla, chiudendo il suo apprezzato e applaudito intervento. Omar ha ricordato che soltanto poche settimane fa si era incatenato a un palo in Piazza Municipio, proprio davanti al Comune di Napoli; in seguito a questo gesto è stato ricevuto dal Consiglio Comunale, da cui è uscita una delibera di cessate il fuoco rivolta al governo. Omar si è quindi chiesto se ci fosse, nel nostro Parlamento, un congruo numero di deputati e senatori capaci di incatenarsi davanti a Palazzo Chigi per porre il governo davanti al bivio se chiedere la Pace e un intervento diplomatico di alto livello, o se ci sono solo parole buone a salvarsi la coscienza. Mi è sembrato l’uovo di Colombo, un gesto che non sfuggirebbe alle televisioni internazionali e metterebbe in seria difficoltà il nostro governo.

Ho sentito una fitta al cuore quando Omar ha chiuso il suo intervento con una sommessa richiesta a nome del suo popolo: “Per favore, non mettete sulle spalle di noi palestinesi tutto il peso dell’Olocausto”.  E queste poche parole mi hanno convinto che i palestinesi aspettano dal “popolo amico” un gesto semplice ma determinato che esprima indignazione e vera solidarietà, per rompere il muro dell’omertà e dell’ipocrisia che li sta cancellando dalla storia. E’ ora di rompere gli indugi.