Sea-Watch: chiamiamo i Cpr con il loro vero nome: lager

Ci sono luoghi nel cuore dell’Europa in cui i diritti umani sono sospesi.
In cui le persone sono ammassate, sedate, sottoposte a tortura psicologica, costrette a vivere in spazi indecenti.
Si chiamano centri per il rimpatrio e, nel piangerne l’ultima vittima, vogliamo chiamarli col loro nome: lager.

Lo scrive l’Ong Sea-Watch su X

Qualche anno fa Papa Francesco definì “lager” i centri di detenzione in Libia.
Ebbene, i lager esistono anche in Italia.
Le persone che vi sono costrette da anni cercano di far sentire la loro voce protestando sempre più forte o, come nel caso di Ousmane, togliendosi la vita.

La risposta dello Stato non è stata quella di migliorare le condizioni di vita dei reclusi ma di alzare le pene per chi alza la testa.

Il recente pacchetto sicurezza ha introdotto 6 anni di pena per le rivolte dentro ai CPR.

Chi ieri ha protestato per la morte del compagno di detenzione Ousmane rischia il carcere.

Il Governo ha identificato proprio nei CPR la modalità di gestione degli arrivi, promuovendo un sistema liberticida e disumanizzante, che pone le persone in stato di detenzione amministrativa senza aver commesso alcun reato se non l’ingresso in Italia, in cerca di protezione o migliori opportunità.

La legge Cutro, infangando la memoria delle vittime del naufragio di cui porta il nome, prevede la costruzione di un CPR in ogni regione e, lontano dagli occhi lontano dal cuore, questo modello vuole essere esportato anche oltreconfine, in Albania.

L’esistenza dei CPR è una vergogna per l’Italia e per l’Europa. L’unica riforma possibile dei Centri per il rimpatrio è la loro definitiva chiusura.