Di fronte ad eventi molto gravi, che provocano indignazione e forti risentimenti, è facile attingere dal vocabolario termini che viceversa andrebbero usati con attenzione e prudenza. E’ accaduto in passato, quando la propaganda mainstream per supportare campagne belliche, soprattutto dell’Occidente, utilizzava con estrema disinvoltura e a sproposito “Nuovo Hitler”, “genocidio” e via elencando. E’ accaduto con le due guerre in Iraq, Saddam fu identificato come novello Fuhrer, le terribili pulizie etniche balcaniche nella ex Jugoslavia indussero a raffronti con i grandi stermini di massa della storia. Quasi sempre raffronti non basati su analisi storiche serie ed equilibrate, ma sulla logica della propaganda politica, funzionale a sostenere la “guerra umanitaria” di turno, salvo il fatto che quando ci si è trovati di fronte ad un massacro che si delineava come vero e proprio genocidio – il riferimento è al Ruanda – ci si è voltati dall’altra parte.

Dunque si usano termini “pesanti” con il risultato, è già stato sottolineato da diversi analisti, di una loro banalizzazione.

La nuova fase del conflitto israelo-palestinese ha riproposto tali dinamiche. Antisemita e antisemitismo sono state due delle parole più utilizzate, come del resto in passato, per bollare molte delle manifestazioni di protesta contro la macelleria israeliana in atto a Gaza. Che ci sia anche un antisemitismo di “sinistra” è vero, ed è un fenomeno storico: tra i testi che hanno analizzato il fenomeno cito l’orma vecchio saggio di Joel Barromi “L’antisemitismo moderno”, Marietti 1988, dove si dedicano capitoli al pensiero illuminista e all’Unione Sovietica. Del resto è evidente che, paradossalmente, anche questo aspetto è stato rilevato, è lo stesso Stato di Israele a fomentare l’antisemitismo: quando ci si definisce “Stato degli ebrei”, e l’identità nazionale è incentrata sull’etnia (e la religione), è inevitabile ingenerare confusione e fare identificare un soggetto statale ben definito con gli ebrei sparsi in tutto il mondo, nonostante il fatto che anche in queste settimane molti di loro abbiano manifestato la loro avversità per questo ennesimo massacro in Palestina.

La stessa mattanza di Hamas del 7 ottobre, oltre a provocare discutibili e spesso irricevibili dietrologie tese a sminuire la gravità della strage (il fatto che alcune vittime del kibbutz Be’ri possano essere state uccise da fuoco amico non può attenuare l’orrore per quello che è accaduto e la sua indubitabile gravità), ha dato adito a impossibili paragoni con la Shoah e anche in questo caso la parola “nazista” ha trovato ampio utilizzo.

Parola, peraltro, ampiamente usata a sproposito anche sull’altro versante, quello che mi appartiene, nel giudicare i crimini commessi dalle truppe militari e civili del governo israeliano. In questo senso, a proposito di parole, quelle dello storico Pasquale Santomassimo sono state più che mai opportune: “Non ho mai usato l’espressione ‘nazisionisti’, che vedo molto diffusa tra i miei contatti, né ho incoraggiato il teorizzare l’equivalenza tra l’esperienza nazista e quella israeliana. Non solo perché come studioso di storia registro l’incommensurabilità fra i due fenomeni, ma anche perché ritengo che questa equiparazione impedisca di cogliere differenze e soprattutto la straordinaria novità del fenomeno, su cui bisognerebbe riflettere. Capisco che si possa restare colpiti dalla spietatezza esibita, dal disprezzo della vita umana delle razze ritenute inferiori, ma queste sono caratteristiche rintracciabili in tutte le esperienze dell’imperialismo in vari continenti e anche delle democrazie coloniali, a partire dalla prima, sbocciata con la rivoluzione americana”.

In conclusione dovremmo sempre soppesare le parole che usiamo, anche perché nel giusto intento, vedi il caso della Palestina, di denunciare le atrocità compiute, rischiamo di assomigliare a chi meritoriamente avversiamo quando usa certi termini per giustificare le proprie politiche aggressive, oppressive e discriminatorie.