Ad una settimana dalla Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese (29 novembre) è stato approvato dal Consiglio Comunale della Città di Napoli lo scorso 22 novembre un ordine del giorno per l’immediato cessate il fuoco in Palestina, per permettere l’assistenza umanitaria delle popolazioni colpite e per il ripristino della legalità internazionale. Si tratta di un atto politico di non secondaria importanza, di fronte a una tragedia, politica e umanitaria, eclatante. Nel corso della guerra contro la popolazione palestinese a Gaza sono state uccise oltre 11mila persone; gli sfollati hanno raggiunto la cifra di 1.6 milioni su una popolazione complessiva, a Gaza, di circa 2.2 milioni di persone; di queste, 2 milioni sono tagliate fuori da cibo, acqua, medicine, elettricità e carburante. Sono stati uccisi quasi 200 medici, oltre 100 membri del personale delle Nazioni Unite, 41 giornalisti; sono state rase al suolo più di 40mila abitazioni, colpiti persino ospedali, scuole, moschee, infrastrutture idriche ed elettriche. Il dato che più impressiona è quello dei bambini: il 41% delle vittime sono bambini, il che significa che l’aggressione ha già causato la morte di oltre 4.500 bambini. Una cifra che non può non destare sgomento: come ha ricordato l’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, nella guerra in corso, in media, ogni dieci minuti un bambino viene ucciso.

Nell’ordine del giorno si fa riferimento a (ciò che resta del) diritto internazionale. Le azioni di guerra intraprese dalle autorità al potere in Israele contro la popolazione palestinese a Gaza rappresentano una flagrante e gravissima violazione del diritto e della giustizia internazionale, a giustificazione della quale non può essere addotto l’assalto portato dai miliziani di Hamas il 7 ottobre proprio perché la reazione da parte israeliana è “sproporzionata”, viola cioè i principi di legittimità, adeguatezza e proporzionalità della risposta, come, tra gli altri, ha recentemente segnalato anche il primo ministro norvegese, Jonas Gahr Støre, secondo il quale «le conseguenze umanitarie per i civili sono catastrofiche: il numero delle vittime, la quantità di distruzione e soprattutto l’enorme impatto sofferto dai bambini palestinesi è in violazione di ciò che le norme e gli standard umanitari richiedono», per aggiungere, di conseguenza, che «sia rispettata la proporzionalità. E la portata della distruzione e della sofferenza che si verifica ora [a Gaza] va ben oltre la proporzionalità».

È una responsabilità di ordine etico e civile non occultare la reale dimensione dei fatti e descrivere quanto sta accadendo nella sua realtà. Questa guerra, oltre a prefigurare un vero e proprio crimine internazionale e a configurare una clamorosa violazione del diritto e della giustizia internazionale, è anche, come è stato detto, «un caso di genocidio da manuale». Nella lettera, ampiamente diffusa dalla stampa e tra i social media, con la quale Craig Mokhiber, già direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, ha rassegnato le proprie dimissioni, si spiega: «Come avvocato specializzato in diritti umani […] so bene che il concetto di genocidio è stato spesso utilizzato abusivamente per scopi politici. Ma l’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzione ed epurazione sistematica, basata interamente sul loro status di arabi, e accompagnato da esplicite dichiarazioni d’intenti da parte dei leader del governo e dell’esercito israeliano, non lascia spazio a dubbi o discussioni. A Gaza, le case, le scuole, le chiese, le moschee e le istituzioni mediche dei civili sono state attaccate senza pietà, mentre migliaia di civili sono stati massacrati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme occupata, le case vengono confiscate e riassegnate in base all’etnia e violenti pogrom dei coloni sono appoggiati da unità militari israeliane. In tutto il territorio regna l’apartheid».

È cioè una clamorosa violazione, tra le altre, della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948), in base alla quale (art. 2) il crimine internazionale di genocidio è «uno qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, o religioso in quanto tale: uccidere membri del gruppo; causare gravi danni fisici o psicologici ai membri del gruppo; infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica». Ribadirlo significa semplicemente dire la verità, e, con questa, la strumentale critica di antisemitismo non ha davvero nulla a che vedere. La stessa definizione di antisemitismo formulata dalla IHRA (Alleanza internazionale per la memoria della Shoah) attesta che «l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto». Qui, seguendo la stessa definizione, la critica non riguarda «lo Stato di Israele in quanto concepito come una collettività ebraica»; è una critica che riguarda le azioni poste in essere, e, come ricorda la definizione, «le critiche verso Israele simili a quelle rivolte a qualsiasi altro paese non possono essere considerate antisemite».

Adesso, una necessaria risposta internazionale, in linea con la Carta delle Nazioni Unite, si impone per salvaguardare non solo ciò che resta del diritto internazionale, ma, primo di tutto, la vita del popolo palestinese. Verso la Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese del 29 novembre è anche una sollecitazione, in linea con la risoluzione istitutiva, a una «soluzione giusta della questione della Palestina, sulla base del conseguimento dei diritti inalienabili del popolo palestinese, compresi il diritto al ritorno e il diritto alla sovranità e alla indipendenza nazionale in Palestina, in linea con la Carta delle Nazioni Unite».