A Osimo dal 2009 viene portata avanti una esperienza pedagogica e didattica che si contraddistingue da quelle più note. La responsabile Emily Mignanelli ci ha raccontato la nascita e l’evoluzione del progetto.

Un’altra scuola è possibile? Certamente, come dimostrano le esperienze di Franco Lorenzoni in Umbria e dei “Maestri di strada” a Napoli, seppur in contesti molto diversi e con modalità differenti.

Un altri esempio ci viene dalla campagna di Osimo, in provincia di Ancona, dove da anni va avanti il progetto ideato da Emily Mignanelli, che ha dato vita all’associazione Lilliput, al centro pedagogico Corallo e soprattutto alla scuola “Serendipità”. Un percorso sicuramente particolare improntato, come vedremo, ad una forte impronta comunitaria.

“Ci tengo a precisare- esordisce Emily – che faccio la pedagogista, sottolineo il “faccio” invece del “sono” perché non voglio identificarmi con il ruolo;  piuttosto vorrei identificarmi con l’obbiettivo finale che per me è sostenere i bambini, aiutare gli adulti ad avere strumenti di benessere personali.  Prima di intraprendere l’attività  di pedagogista, per molti anni ho fatto l’insegnante nell’ambito statale, ma la mia esperienza sul campo è stata soprattutto nella  scuola sperimentale. Ho scritto anche libri, saggi pubblicati da Feltrinelli, un nuovo testo sta per uscire nel prossimo periodo”

Il tutto inizia nel 2009 quando Mignanelli avvia il primo asilo nido, poi la scuola d’infanzia, successivamente la primaria, la secondaria di primo grado;

“In seguito ho deciso di trasformare il lavoro tenendo fermo l’obbiettivo di sviluppare l’attività pedagogica, perché mi sono resa conto che il problema principale che la scuola deve affrontare non è tanto la didattica, ma la relazione che però parta prima dagli adulti e poi vada verso i bambini, non viceversa.

Ho iniziato a rendermi conto di quanto la mancanza di rielaborazione della propria storia personale diventi l’ostacolo principale per la comprensione di cosa i bambini ci stanno dicendo. L’intuizione è stata poi confermata quando ho cambiato completamente approccio, sposando la pedagogia dinamica, avendo risultati incredibili, al punto che sono andata a parlare con dei professori universitari chiedendo loro di fare uno studio su questo, evidenziando come il racconto della storia del bambino dal suo concepimento modificasse in maniera sensibile sintomi che i bambini manifestavano sia fisici che comportamentali”.

Ma Emily ha visto innalzarsi un muro di diffidenza: “Quando ho chiesto che questo diventasse argomento di ricerca, mi è stato risposto che quello che stavo proponendo avrebbe modificato  tutto l’impianto teorico sul bambino, per cui  nonostante si trattasse di una idea affascinante era alquanto  rischiosa, perché si sarebbero dovute rivedere molte cose e ricevetti un rifiuto. Per carità magari nel mondo accademico ci possono essere altri interessati visto che dopo questa risposta non sono andata a cercare altrove, però questa è stata la reazione dei miei interlocutori”.

Quando si parla di scuola si pensa a quella pubblica o quella privata. La vostra come può essere definita, comunitaria? Una “terza via” didattica?

La nostra viene definita scuola parentale. Ci tengo a fare un inciso perché tale definizione viene da un articolo della Costituzione, ( l’articolo 30 ndr), chiarendo comunque che non è una scuola gestita dai genitori, ma dagli insegnanti. Nel nostro caso essendo più una scuola privata, ho preferito mantenere il nome  parentale perché avrebbe dato molta più flessibilità, che serviva per fare una determinata sperimentazione, quindi possiamo definirla una scuola privata che utilizza la forma di quella parentale.

In cosa vi differenziate dalle altre scuola private? Immagino ci siano delle particolarità…

Certamente, ne cito alcune: la prima, non la più rilevante, è il contesto in cui si svolge il nostro lavoro. Stiamo in campagna, dunque una dimensione molto bucolica. Dico che non è la cosa più importate perché per usare una metafora teatrale, certamente conta la scenografia, ma ancora di più la sceneggiatura. Infatti i bambini che si iscrivono  a Serendipità hanno i genitori che hanno fatto un determinato percorso. Il nostro principio cardine è: se prendo in carico il bambino, prendo in carico il sistema famigliare. In sostanza noi non prendiamo bambini, ma famiglie. Chi vuole iscrivere il proprio figlio prima deve fare un percorso.

In questi incontri noi affrontiamo questioni sistemiche. La parte “sistemica” è un filone della psicologia che ritiene la persona inserita in un sistema famigliare. Quando il bambino entra la famiglia viene coinvolta in un’ottica di corresponsabilità, seppur mantenendo chiari i ruoli reciproci di chi gestisce e chi usufruisce. Quindi verifichiamo ciò che i bambini vivono tra casa e scuola. Il bambino a scuola manifesta il sintomo che non è sempre il segnale di una malattia. Un bambino bravissimo non significa che sia bravo, ma che è accondiscendente; l’accondiscendenza viene ricostruita come tratto caratteriale di chi ricerca l’amore all’interno di un contesto specifico Quindi noi lavoriamo per riuscire a superare gli ostacoli per lo sviluppo della vera identità con l’obbiettivo di rimuovere quello che nel gergo si chiama il “falso sé” che i bambini costruiscono per avere l’amore dei genitori.

Da qui si può dedurre che non siamo una scuola statale, privata o parentale perché non esiste una realtà che fa un lavoro del genere. La nostra scuola possiamo definirla una terapia preventiva.

In questo senso quando l’ho definita scuola comunitaria, mi sembra che in base a ciò che dici la definizione sia abbastanza giusta…

Sì, infatti noi ci definiamo “scuola comunità”. Visto che però purtroppo dal punto di vista legale ancora non esiste il concetto di scuola comunitaria, noi siamo costretti a scrivere scuola –  comunità, con il trattino…

Quindi non siamo propriamente una comunità, né una scuola, siamo una realtà scolastica dove il senso di corresponsabilità civico e relazionale è al centro di tutto.

Quante famiglie avete e qual è la loro estrazione sociale?

In questo momento una quindicina. Negli anni abbiamo avuto un’evoluzione. Siamo partiti con numeri grandi, per poi ritornare ad una dimensione più ristretta, perché avevamo la necessità di migliorare gli aspetti didattici, pedagogici, e il grande numero era una limite.

Inoltre trovare famiglie disposte a fare un percorso su di sé non è facile. In ogni caso preferiamo puntare su una quantità che ci permetta di sostenere economicamente il progetto, ma nello stesso tempo ci consenta di rispettare la nostra etica, che rifiuta la delega. Prima vengono i genitori, poi tutti gli altri, altrimenti se vuoi  la crescita di tuo figlio, vuoi una specie di orfano, allora vai ad un orfanotrofio.

Per quanto riguarda il ceto sociale è alquanto vario. Quando la scuola era considerata parentale diciamo che c’era un giro abbastanza freak, uso questo termine per catalogare persone piuttosto anti sistema, impegnate in cause  ambientali in forma molto estrema, quindi soggetti che definirei arrabbiati, riottosi ed era difficile lavorarci, perché non cercavano una scuola diversa, ma una scuola che si opponesse a quella statale.

Successivamente queste famiglie sono uscite e ora abbiamo nuclei con genitori che non sono particolarmente benestanti,  in certi casi fanno anche lavori molto umili, ma scelgono consapevolmente di investire su una scuola di un certo tipo piuttosto che comprare una macchina o altro. Chi non ha risorse economiche sufficienti ha fatto leva nell’ambito parentale con delle collette, magari durante le feste natalizie o compleanni. Poi ci sono anche famiglie facoltose. Insomma c’è un po’ di tutto. Quello che le accomuna è il profondo tentativo di comprendere se stesse, con una grande volontà interiore di migliorarsi. Alla base o c’è molto coraggio o molto dolore, ma il dolore lo si vuole trasformare in opportunità. I loro figli sono la chiave per una profonda trasformazione.

Che età hanno i bambini?

Inizialmente abbiamo avuto da 1 a 14 anni, ora dai 3 agli 11, scuola dell’infanzia e scuola primaria.

Una scelta dovuta al fatto che se è difficile trovare genitori, non è semplice trovare degli insegnanti, perché anche questi ultimi fanno un processo parallelo. A me non interessa particolarmente la laurea, è importante la preparazione pedagogica, ma soprattutto che sia una persona con qualità umane e voglia di lavorare sulla propria autobiografia, aspetto imprescindibile. Gli insegnanti hanno una formazione permanente fatta di aggiornamenti pedagogici e didattici e poi verifiche psichiche, relazionali, comunicative.

Ci sono bambini che hanno iniziato nella scuola pubblica e poi hanno scelto la vostra scuola?

Certamente, come anche bambini che hanno fatto il percorso inverso. Di solito chi viene dalla scuola statale ha come caratteristica collettiva la sfiducia verso l’insegnante. Quindi tendono a mentire, ad avere paura, ed è necessario recuperare la loro fiducia. Detto questo, ci tengo a sottolineare come i bambini che vengono dalla scuola statale hanno una buona preparazione didattica – in questo senso la scuola “ufficiale  ha molto da insegnarci. La critica che io muovo alle scuole parentali è che non considerano che noi dovremmo essere come la scuola statale, ma con l’emotività. I bambini che escono da noi e vanno nella scuola di Stato hanno come caratteristica principale l’ascolto di se stessi, il riuscire ad esprimersi in un determinato modo, la fiducia verso l’adulto.