Parte la chiamata militarista alle armi messa in atto da Israele a tutti gli ebrei del mondo con cittadinanza israeliana, mobilitando le comunità ebraiche per tornare in Israele e rispondere all’appello del governo ultranazionalista di Benjamin Netanyahu, che ha richiamato già più di 300.000 riservisti. Si tratta della chiamata di riservisti con il numero più alto dalla guerra del 1948, la guerra che portò all’occupazione coloniale delle terre palestinesi con la conseguente diaspora e lo sterminio della Nakba.
Il ministro degli Esteri Eli Cohen ha annunciato “voli speciali” che porteranno a Gerusalemme e Tel Aviv dall’America e dall’Europa i giovani in età per combattere. Ancora una volta la chiamata arriva per “difendere” Israele non come Stato, ma come nazione ebraica: “Numerose le richieste che abbiamo ricevuto per rientrare in Israele il prima possibile, adesso che i militari preparano l’offensiva di terra nella Striscia di Gaza. Questa è la più grande mobilitazione della nostra storia. Da ogni parte del mondo ci chiedono di essere quanto meno volontari per qualsiasi cosa di cui ci sia bisogno, per dare una mano, e questo ci scalda il cuore. Questo è lo spirito di Israele”.
Decine di migliaia di soldati sono già attorno alla Striscia, mentre i nuovi riservisti e volontari verranno mandati sugli altri fronti possibili di una guerra che potrebbe estendersi. Riservisti e riserviste ebrei con doppio passaporto si stanno presentando agli aeroporti francesi e inglesi e americani. Decine i franco-israeliani già partiti con voli diretti per Israele, per “onorare il giuramento”.
I riservisti di Tsahal hanno la precedenza nei voli che decollano da Parigi Charles de Gaulle. Tra di loro ci sono anche 20 italo-israeliani che nei giorni scorsi sono partiti dall’aeroporto di Fiumicino. In Israele gli italiani presenti sono 18mila, molti hanno anche doppio passaporto e si preparano a imbracciare il fucile. Tutti gli italiani e israeliani, o con doppio passaporto, che avevano il biglietto per il volo El Al del mattino lo hanno ceduto ai giovani richiamati in Israele e pronti a raggiungere le rispettive unità. Come Noa Rakel Perugia, 22enne italo-israeliana riservista in servizio attivo, che racconta: “Io ero qui come tanti altri per le feste di Sukkot, dovevo cominciare l’università in Israele il 15 ottobre..”. Invece di andare alla Reichman University di Erzliya per i corsi della sua materia, Relazioni internazionali, Noa rientra nei ranghi che ha lasciato da poco. “È mio dovere partire, anche se qui sono preoccupati e lo è la mia famiglia. Ho fatto il liceo scientifico a Roma, nella scuola ebraica Renzo Levi. Dormivo a casa dei miei genitori quando alle 5 del mattino di Shabbat, giorno di festa per noi, mia zia ci ha telefonato da Gerusalemme e ci ha detto della guerra. Lei ha tre figli e il maschio è un ufficiale della fanteria, subito richiamato al fronte. Sarei dovuta andare con la mia famiglia in Sinagoga a festeggiare Sukkot, invece è cominciata per ore una ricerca straziante con chi aveva parenti, amici, fratelli, figli uccisi o rapiti.
Siamo rimasti incollati alla Tv, i contatti sono stati molto difficili perché era festa. Israele è molto piccola, ognuno sta cercando morti, rapiti o dispersi. Ogni ospedale ha ora un’emergency room per assistere famiglie che cercano parenti, genitori che non hanno notizie dei figli, molti erano al rave nel deserto” ha dichiarato al Messaggero, il tutto come se questo fosse una cosa normale. ”Il mio pensiero è con le famiglie ammazzate al confine con Gaza, faccio tutto quel che posso per partire subito e portare il mio aiuto ai soldati al fronte. Nell’esercito il mio lavoro è stato giornalistico, ero un soldato nell’unità portavoce, credo che tornerò in quell’unità. È mio dovere”.
In Israele, ebrei italiani che hanno scelto da anni di trasferirsi, in queste ore vanno anche loro verso nord, al fronte, oppure organizzano gli aiuti. Come David Di Tivoli, 46 anni, da venti in Israele, manager di una società informatica, che col suo furgone porta ogni genere di aiuti per i soldati e le soldatesse al fronte. Perché da un giorno all’altro l’esercito è cresciuto di numero e mancano anche generi d’uso comune. “Mi sto attivando con gli amici per soddisfare le richieste di cibo in scatola ma anche di salviette umidificanti, dentifrici, acqua, assorbenti, abbigliamento… Tutto ciò che può servire, cose magari a cui nessuno pensa”.
Il militarismo israeliano continua dunque, oltre che nell’occupazione coloniale, anche nel consenso soprattutto nei più giovani, esaltando le retoriche ultra-nazionaliste del sionismo più conservatore.