Il Vertice per l’Amazzonia, avvenuto il 7 e l’8 agosto al Centro Congressi Hangar nella città brasiliana di Belém do Pará, ha riunito quattro presidenti della regione e i rappresentanti governativi di altri otto governi, per adottare misure congiunte di preservazione delle foreste tropicali ed esigere il sostegno economico dei Paesi ricchi del Nord.

Un tentativo di potenziare i Paesi con abbondanti foreste nei tropici e le popolazioni indigene e locali è stato rappresentato nel Vertice per l’Amazzonia, che ha riunito a Belém do Pará, nel nord del Brasile, i governanti della regione martedì 8 e mercoledì 9 agosto e la società civile nei giorni precedenti.

“Uniti per le nostre foreste” è il titolo del comunicato congiunto con cui si è concluso il vertice degli otto Paesi amazzonici, più il Congo-Brazzaville, la Repubblica Democratica del Congo, l’Indonesia (in quanto Paesi con grandi foreste tropicali) e Saint Vincent e Grenadine, come attuale presidente della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (CELAC).

Metà dei dieci punti del comunicato rimprovera i Paesi industriali del nord. Innanzitutto per l’inadempimento dei loro impegni a fornire 100 miliardi di dollari all’anno affinché i Paesi in via di sviluppo del sud affrontino la crisi climatica, cioè lo 0,7% del loro reddito nazionale lordo in aiuto ufficiale allo sviluppo, e 200 miliardi di dollari all’anno fino al 2023 per la conservazione della biodiversità.

Inoltre, il comunicato condanna le misure ambientali in quanto “una restrizione occulta al commercio internazionale”, esige un “accesso preferenziale dei prodotti forestali” e chiede che i Paesi ricchi accelerino la decarbonizzazione delle loro economie.

L’emergenza climatica colpisce già le foreste tropicali in tutto il mondo, si aggiunge in un’apparente risposta alle pressioni dei Paesi sviluppati per fermare la deforestazione nei Paesi tropicali.

Al contrario, un riconoscimento “dell’inestimabile contributo delle popolazioni indigene e delle comunità locali” alla conservazione delle foreste tropicali apre il documento, che rivolge un appello ai Paesi che possiedono una grande biodiversità e ricchezza forestale a dialogare per una maggiore influenza nei consessi internazionali e nella gestione delle risorse per la conservazione.

Al vertice dell’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (OTCA) hanno partecipato quattro presidenti di Paesi amazzonici – Bolivia, Brasile, Colombia e Perù – e due congolesi. Gli altri membri del gruppo (Ecuador, Guyana, Suriname e Venezuela) sono stati rappresentati da delegati di alto livello dei loro governi.

Foto di Cícero Pedrosa Neto / Amazônia Real / IPS

Più di 800 indigeni hanno manifestato per le strade di Belém do Pará l’8 agosto, durante il Vertice del Trattato amazzonico. Nella Marcia dei popoli della Terra per l’Amazzonia, i rappresentanti delle popolazioni indigene  hanno richiesto la difesa dei loro territori e una maggior partecipazione agli obiettivi della cooperazione e alle decisioni per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica.

Indigeni e ambientalisti frustrati

Il vertice parallelo delle popolazioni, nell’ambito dei “Dialoghi amazzonici” dal 4 al 6 di agosto ha visto la partecipazione di quasi 30.000 persone.

L’assemblea indigena, con più di 800 rappresentanti da Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Guyana francese (parte della regione, però non membro a pieno titolo dell’OTCA essendo territorio europeo) e Suriname, ha approvato una lettera ai capi di Stato in cui reclama i propri diritti, specialmente la demarcazione e la protezione dei loro territori.

I dirigenti delle organizzazioni indigene, così come gli ambientalisti, si sono lamentati dell’assenza di obiettivi e scadenze per le grandi sfide amazzoniche, come la deforestazione, la demarcazione dei territori indigeni e delle aree di conservazione.

«Assicurare i diritti dei popoli indigeni e delle comunità locali e tradizionali» è una delle 113 “decisioni” che compongono la “Dichiarazione di Belém”, firmata solo dai governanti e delegati degli otto membri dell’OTCA, formata nel 1995 per mettere in atto il Trattato sottoscritto nel 1978.

Il bacino dell’Amazzonia è un bioma di foresta tropicale ampio 7,5 milioni di chilometri quadrati e con più di 40 milioni di abitanti (secondo i dati del governo brasiliano), di cui due milioni appartengono a 500 popolazioni indigene. Il vertice di Belém è il primo del gruppo dal 2009.

«Il governo mi ha stimolato a riconoscere che le soluzioni per l’Amazzonia saranno efficaci solo con la partecipazione dei popoli tradizionali, che non possono venire da fuori o dall’alto al basso, che lo sviluppo sostenibile si fa solo con e per la popolazione locale.» Questa la valutazione di Manuel Cunha, un leader di comunità e gestore attuale della Riserva estrattiva Medio Juruá.

Lo Juruá è uno dei grandi affluenti del Rio delle Amazzoni, nel cui bacino la riserva di 287.000 ettari è diventata un esempio di bioeconomia, con circa 300 famiglie che raccolgono caucciù e altri prodotti forestali, come oli da frutta, oltre alla co-gestione della pesca di pesci amazzonici, come il pirarucu (Arapaima gigas).

Foto de Ricardo Stuckert / PR / IPS

Il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, padrone di casa del vertice per l’Amazzonia, alla fine di un incontro bilaterale con il suo corrispettivo della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, assieme alle loro ministre per l’ambiente. Questo Paese è stato uno dei tre invitati dall’Africa e dall’Asia, con il proposito di consolidare un’alleanza tra i Paesi che possiedono estese foreste tropicali nei negoziati mondiali sul clima.

Princìpi incoraggianti

“Tre novità mi hanno incoraggiato in questo vertice» ha dichiarato Cunha, un lavoratore del caucciù di 55 anni, che si considera ‘in prestito al governo’ come funzionario dell’Istituto Chico Mendes per la Conservazione della biodiversità, l’ente del Ministero dell’ambiente che gestisce la riserva. “Oltre alla partecipazione sociale, gli otto governi hanno promesso uno sforzo congiunto per combattere il garimpo, com’è chiamata in zona l’attività estrattiva informale e quasi sempre illegale che sta contaminando i fiumi con il mercurio, un metallo pesante dannoso per il sistema nervoso e hanno coinvolto la società locale nella bioeconomia.

“Bisogna parlare di sociobioeconomia, perché la bioeconomia da sola permette d’includere la monocoltura della soia con l’uso di veleni agricoli e l’allevamento intensivo”, ha spiegato Cunha all’Inter Press Service, per telefono da Coari durante lo scalo del volo di ritorno da Belém a Carauarí, dove vive sulle rive del fiume Juruá.

“La collaborazione di tutti nella lotta alle estrazioni è indispensabile, perché tale attività nella parte alta di un bacino avvelena l’acqua di tutto il fiume, quindi i pesci e poi le persone, con un effetto domino”, ha aggiunto.

L’OTCA ha rilevato che nel bioma amazzonico ci sono 4114 concessioni illegali per le estrazioni, che producono più di 150 tonnellate di mercurio all’anno nei suoi fiumi. L’attività si è intensificata in Brasile negli ultimi quattro anni durante il governo del presidente Jair Bolsonaro (2019-2022), che ha incentivato le miniere anche nei territori indigeni.

Oltre alle azioni per “sradicare lo sfruttamento illecito dei minerali”, il Vertice per l’Amazzonia ha riconosciuto l’espansione della criminalità organizzata nella regione e la necessità di cooperare per tener testa ai vari crimini, non solo quelli ambientali.

Un Centro di cooperazione delle forze di polizia internazionali dell’Amazzonia avrà sede a Manaus, capitale dello stato brasiliano di Amazonas.

Timore per il punto critico

Ma è la deforestazione la grande minaccia al bioma. La dichiarazione governativa ha riconosciuto il rischio del “punto di non ritorno” o critico, notato da tanto tempo dai ricercatori per l’Amazzonia, che consiste nel superamento del 20% di deforestazione sul totale.

Da quel momento, il degrado forestale diventa irreversibile e la tendenza, secondo i climatologi, è la trasformazione delle foreste tropicali in savane.

Le stime della deforestazione attuale variano tra il 17 e il 18% , ma c’è un fattore di incertezza, ovvero le aree degradate, di parziale eliminazione della vegetazione originale, che coprono un’estensione maggiore.

In gran parte dell’Amazzonia brasiliana meridionale e orientale, a causa dell’intensa deforestazione il punto critico è già stato sorpassato; le ricerche hanno dimostrato che le emissioni di gas dell’effetto serra superano l’assorbimento naturale di quelle foreste.

Tuttavia, secondo Carlos Nobre, copresidente del Gruppo scientifico per l’Amazzonia, la capacità di rigenerazione forestale si può recuperare con un’ampia e improrogabile riforestazione.

Il governo brasiliano ha fissato l’obiettivo di “zero deforestazione” in Amazzonia entro il 2030, ma non è riuscito a farlo approvare come obiettivo generale al vertice.

La dichiarazione di Belém annuncia un’Alleanza amazzonica per la lotta alla deforestazione “per evitare il punto di non ritorno”.

Le dichiarazioni del presidente Luiz Inácio Lula da Silva, esigendo il sostegno economico delle nazioni ricche, e le risoluzioni del Vertice rendono le foreste tropicali uno strumento di potere nei negoziati internazionali.

“Se si vuole preservare ciò che è presente nelle foreste, bisogna impiegare denaro non solo per prendersi cura della cima degli alberi, ma anche del popolo che vive sotto”, ha detto Lula per ottenere il contributo promesso dal “mondo ricco” per la mitigazione del cambiamento climatico.

In quanto padrone di casa del Vertice e presidente del Paese che contiene il 62% del bioma amazzonico, Lula ha adottato l’attivismo ambientale e climatico come suo fattore di rilievo sul piano internazionale.

Tuttavia, può perdere la sua nuova immagine di campione dell’ambientalismo se riesce a far approvare alle autorità ambientali i pozzi esplorativi di petrolio nel bacino di sbocco del Rio delle Amazzoni. L’autorizzazione, richiesta dall’impresa statale Petrobras, è stata rifiutata in maggio, ma Lula si è già dichiarato speranzoso di una nuova decisione favorevole. Nel Vertice per l’Amazzonia ha avuto come oppositore il presidente della Colombia, Gustavo Petro, che ha proposto di abolire le estrazioni petrolifere in tutta l’Amazzonia, anche lui senza ottenere consensi.

Traduzione dallo spagnolo di Mariasole Cailotto.
Revisione di Anna Polo

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