In un Paese come la Turchia, dove l’indice di democrazia è tra i più bassi al mondo e gli oppositori più ostici finiscono in galera, già il ballottaggio è un evento eccezionale.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha governato il suo Paese con una presa repressiva e autocratica, sempre più ferma nel corso dei suoi 20 anni di potere, per la prima volta è stato “fermato” sulla soglia del 49,60% in una serrata corsa elettorale.

Il candidato Kemal Kilicdaroglu, che era stato dato in testa nei sondaggi, ha costretto il presidente turco al secondo turno. Non era mai accaduto che Erdogan non riuscisse a imporsi al primo colpo, anche se rivendica una “netta maggioranza in Parlamento”. Lo sfidante, Kilicdaroglu, è staccato di quasi 5 punti, ma si dice sicuro della vittoria finale. A fare la differenza sarà quel 5% dell’outsider nazionalista Ogan.

Il risultato finale, atteso tra due settimane, determinerà se il paese alleato della Nato, a cavallo tra Europa e Asia e al confine con Siria e Iran, resterà sotto il controllo autoritario di Erdogan o riprenderà il percorso democratico promesso dal suo principale rivale e leader dell’opposizione.

Durante il suo ultimo comincio con i suoi sostenitori ad Ankara, il sessantanovenne capo di stato ha affermato di poter vincere ma che rispetterà “la decisione della nazione”, qualunque essa sia.

Al ballottaggio peseranno anche le preferenze espresse dai turchi che vivono in altri paesi. Nel 2018 Erdogan aveva ottenuto il 60% dei voti all’estero.

Le elezioni di quest’anno si sono concentrate in gran parte sulle questioni interne come l’economia, i diritti civili e le conseguenze del terremoto dello scorso febbraio che ha ucciso più di 50.000 persone. L’esito delle presidenziali è atteso anche dalle nazioni occidentali e soprattutto dagli investitori stranieri, che temono contraccolpi con la fine dell’era Erdogan.

Chi invece auspica la caduta di un regime ammantato di apparente legittimazione democratica sono le tante organizzazioni in difesa dei diritti umani e della libertà di pensiero impegnate da sempre a contrastare le violazioni e i bavagli imposti da Erdogan, tra cui Articolo 21.

In queste ore pensiamo a  Ebru Timtik, Helin Bolek e Mustafa Kocak, perseguitati per anni dalla magistratura “erdoganizzata” insieme a centinaia di giornalisti, deputati, attivisti inseriti nella lista senza fine dei nemici dello Stato, detenuti o condannati dopo processi senza prove. Per difendere i loro diritti e protestare contro i soprusi subiti si sono lasciati morire attuando lo sciopero della fame.

Vogliamo credere che tutti i turchi al voto abbiano ripensato a loro, rivisto i loro volti scavati prima dell’ultimo respiro e abbiano trovato la forza e il coraggio di cambiare.

Il 28 maggio sarà il giorno della verità. E, ci auguriamo, della “liberazione”.

 

L’articolo originale può essere letto qui