L’India è la culla delle più antiche tradizioni mediche, come l’Ayurveda, la Yunani Tibb, la Siddha. La colonizzazione inglese fece “tabula rasa” delle antiche farmacopee indiane e impose la “scienza maschia” occidentale e quindi anche la medicina allopatica occidentale. Dal XVIII secolo e nei successivi 200 anni di dominazione britannica dell’India, avvenne la soppressione dello studio e della pratica ayurvedica, ritenuta una dottrina ricca di precetti inesatti e antiquati. Solo nel XX secolo grazie all’avvento del movimento rivoluzionario nonviolento per l’indipendenza guidato dal Mahatma Gandhi, la medicina ayurvedica venne nuovamente portata alla ribalta e il suo sapere riconosciuto come fondamentale all’interno del Paese. Ne parliamo con Gloria Germani, ecofilosofa, attivista nonviolenta nei movimenti deep ecology, grande studiosa di Gandhi e di Tiziano Terzani, praticante dell’Avdaita Vedanta (Via della Non-dualità), la più conosciuta fra tutte le scuole Vedānta dell’induismo.

In cosa divergevano gli epistemi dell’Ayurveda da quelli della medicina allopatica? In cosa divergono nella lettura della sintomatologia e nella comprensione della malattia?

Siamo in due universi di senso completamente differenti. Per l’ayurveda – che è un’estensione del pensiero indiano (sanathana dharma) – non si vive per vivere, ma per scoprire il senso del vivere. La salute del corpo è una condizione favorevole per arrivarci, ma raggiungere la conoscenza sul giusto cibo, sulla respirazione, il moto e le medicine fitoterapiche è una condizione per un fine più alto, ossia il moksa, la liberazione, la vera felicità. Nello specifico l’Ayurveda è basato sulla costante ricerca dell’equilibrio tra il sé individuale e l’ambiente psicofisico circostante e sull’equilibrio dei tre dosha, le energie vitali che costituiscono il nostro essere: Vata, Pitta e Kapha.

L’Ayurveda qui riprende la concezione pan indiana  dei tre guna o fili/ energie che intrecciandosi in varie maniera danno luogo alla manifestazione dell’intero universo. Essi sono: leggerezza, bontà, luminosità (sattva); attività, passione, dinamismo (rajas); pesantezza, inerzia, oscurità (tamas). I tre guna sono sempre presenti, ma noi abbiamo la capacità unica di alterare consapevolmente i livelli dei guna nei nostri corpi e nelle nostre menti, attraverso l’alimentazione, lo stile di vita e i pensieri. Ed è per questo che ritroviamo i guna sia nella filosofia dello yoga che nella medicina ayurvedica. Tornando ai Dosha presenti nell’uomo, il primo Vata è costituito da etere e ariaed  è responsabile del movimento; il secondo, Pitta, è costituito da fuoco e acqua, governa il metabolismo e il terzo, Kapha, è costituito da terra e acqua e determina la struttura corporea. Secondo l’Ayurveda, i trattamenti medici non iniziano quando compare la malattia, ma molto prima che essa si manifesti. Una vita sregolata e l’accumulo di emozioni negative possono far nascere la malattia. I dottori usano strumenti diagnostici molto diversi dalle nostre analisi sempre più tecnologiche e costose: tra queste la lettura del polso, una tecnica molto precisa di diagnosi attraverso l’ascoltazione della pressione sanguigna, mentre i rimedi sono costituiti da massaggi con olio, mantra e uso di metalli.

La medicina occidentale moderna invece è fondata sul paradigma newtoniano cartesiano e sulla separazione mente-corpo. Per gli scienziati-medici, il malato non è vita o un essere irripetibile, ma è sempre di più un corpo-macchina. La malattia è un’alterazione di un meccanismo molecolare. La terapia consiste nel modificare o sostituire la molecola attraverso prodotti chimici introdotti dall’esterno del corpo. Anche la biologia infatti è nata come studio degli organismi viventi concepiti in quanto macchine, costituite da parti separate che interagiscono secondo nessi lineari di causa-effetto. Questo approccio cartesiano –newtoniano ha condotto a risultati eclatanti: nel Settecento nacquero la chimica, la citologia e la microbiologia, ma oggi si fa sempre più evidente che la medicina moderna esamina pezzi di corpo: il fegato, i reni, lo stomaco, i polmoni, il cuore. La medicina allopatica considera sano il soggetto che non presenta sintomi rilevabili da osservazioni esterne. Il sintomo è un evento statico nel quale il concetto di malattia si esaurisce completamente e solo chi ha dei sintomi evidenti può considerarsi malato. La terapia medica allopatica, dunque, ha come scopo il ripristino della salute attraverso la soppressione farmacologica o chirurgica del quadro sintomatologico[1]. L’esperto di turno si rivolge esclusivamente ai pezzi, e neppure ai pezzi in sé, ma alla loro rappresentazione sullo schermo del computer. Ciò che manca alla medicina allopatica è la capacità di distinguere una buona morte da una cattiva morte, perché la morte è diventata solo e soltanto l’arresto totale del corpo-macchina.

Interessante fu anche l’avallo di Gandhi all’omeopatia, sistema di cura occidentale che però ribaltava completamente l’epistemologia su cui si fondava la medicina allopatica. Cosa sosteneva?

Gandhi scriveva: “L’omeopatia è l’ultimo e sofisticato metodo di cura dei pazienti, economico e nonviolento. Il governo deve incoraggiarlo e favorirne la diffusione nel nostro Paese. Inoltre il dottor Hahnemann era un uomo intellettualmente superiore e conosceva il significato della salvezza della vita umana, essendo un medico dalla forza unica. Io mi inchino davanti alla sua capacità e davanti al grandioso lavoro umanitario che ha svolto. La sua memoria ci anima ancora una volta a seguirlo, ma gli oppositori odiano l’esistenza dei principi e della pratica dell’Omeopatia, che in realtà cura una maggiore percentuale di casi rispetto ad altri metodi di trattamento, e al di là di ogni dubbio è la più sicura, la più economica e la più completa scienza medica”.[2]

Egli ebbe modo di sperimentare su se stesso e i suoi familiari l’effetto terapeutico dell’omeopatia, e ne rimase particolarmente colpito per la sua efficacia e per le sue basi filosofico-scientifiche. L’omeopatia funziona un po’ come la nonviolenza: vuole non solo vincere ma con-vincere, vincere insieme. La nonviolenza è lotta di liberazione che include non solo gli oppressi, ma anche gli oppressori contro il cui agire si solleva e combatte, mentre l’omeopatia cerca di fare uscire la malattia, non di combatterla frontalmente. Potremmo dire che anche l’omeopatia vuole con-vincere, vincere insieme alla malattia. Usando sostanze naturali il sistema omeopatico stimola il paziente a far agire la propria capacità di guarigione. Si tratta di curare il simile col simile; somministrando una piccola quantità di “malattia” si fanno insorgere i sintomi della malattia stessa e con ciò si stimola il corpo a difendersi e a guarire.

Dunque è un completo ribaltamento del paradigma su cui si basa la medicina allopatica, ma era conosciuto da Ippocrate nella Grecia del IV secolo prima di Cristo, l’aveva riscoperto Paracelso nel Rinascimento, l’avevano usato i cinesi, i Maya e gli indigeni “pellerossa”. Hahnemann aveva una visione antica e nuova allo stesso tempo: l’uomo era per lui un essere composito, un’entità multidimensionale, non solo fatta di materia, ma anche di coscienza e di intelligenza. “La mente è la chiave di volta dell’uomo” scrivevaIl rimedio è tanto più efficace, quanto più è stato diluito, persino al punto in cui nell’acqua non resta più alcuna presenza rintracciabile della materia originaria. Si è parlato con sarcasmo della “memoria dell’acqua” ma studi recenti di Luc Montagnier e del fisico nucleare Prof. Emilio Del Giudice[3] hanno dimostrato la capacità induttiva di onde elettromagnetiche in diluizioni acquose[4]. Oggi la scienza “ufficiale” sta portando avanti una diffusa battaglia contro l’omeopatia, definita come ciarlataneria che induce effetti placebo. Ma non è questo un atteggiamento di difesa per la voragine che si sta aprendo sotto la concezione materialista e meccanicista dell’uomo e del suo corpo?

In India ancora oggi per parlare della medicina allopatica occidentale si usa il termine “medicina inglese” e non è un caso che ci sia un Ministero che si occupa della salvaguardia e della diffusione delle medicine naturali. Come viene vista la medicina occidentale oggi in India? Credi ci sia ancora una sfiducia dovuta al colonialismo?

Oggi l’Āyurveda è una delle sei scienze mediche praticate in India e ufficialmente riconosciute dal governo; le altre sono l’omeopatia, la naturopatia, la Unani, la Siddha e lo Yoga, oltre alla medicina moderna occidentale. Oggi si contano circa 444.000 medici ayurvedici, 22.100 farmacie centrali, 2.189 ospedali e 8.400 produttori di farmaci. Mi sembra che soprattutto con l’avvento della pandemia Covid, l’India abbia riscoperto la sua tradizione medica basata su metodi molto più naturali. Contro le direttive dell’OMS, il governo indiano ha stabilito l’uso massiccio dell’Ivermectina e dell’idrossicolocrina, che ha portato a notevoli successi. “In poco tempo in alcuni Stati della India la ripresa della pandemia è stata stroncata proprio grazie alla Ivermectina”.

[1] Cura della natura e omeopatia, per guarire senza farmaci https://www.peacelink.it/gdp/a/7266.html

[2] M.Gandhi, Harijan, 30 agosto 1936

[3] Transduction of DNA information through water and electromagnetic waves https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26098521/

[4] DNA waves and water https://iopscience.iop.org/article/10.1088/1742-6596/306/1/012007/meta