“C’è un albero in Giappone” racconta della storia di un albero di caco messo a dimora nel centro di un piccolo giardino giapponese. Negli anni, mentre il tronco si irrobustisce e le foglie si colorano, vede intorno a sé la città crescere e la sua famiglia allargarsi. Tutto si capovolge in una sola mattina, quando la bomba atomica – agli occhi dell’albero un fungo velenoso mai visto prima – si alza nel cielo, cambiando per sempre la vita di Nagasaki e dei suoi abitanti sopravvissuti. Una storia che prende ispirazione dal Kaki Tree Project, progetto internazionale ideato in Giappone, finalizzato a sensibilizzare le giovani generazioni (e non solo) sulla pace, utilizzando come veicolo di forte valore simbolico il “Kaki della pace di Nagasaki”. Opera uscita lo scorso marzo, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare e intervistare Chiara Bazzoli, la sua autrice.
Come nasce “C’è un albero in Giappone?”
E’ nato da un incontro, anzi da più incontri. Prima con Pierluigi (Fanetti) e Adriano (Moratto) che facevano parte del Kakitree Project, poi con una pianta: un albero di kaki che si trova non lontano da casa mia, nel giardino del Museo Santa Giulia di Brescia. Questa pianticella è figlia di una pianta di kaki sopravvissuta alla bomba atomica lanciata su Nagasaki. Già solo il fatto che sia arrivata qui da un luogo così lontano, dall’altra parte del mondo è emozionante. Probabilmente anche altre piante che ho incontrato hanno compiuto lunghi viaggi, ma questa mi ha emozionato. Ha viaggiato per raccontarci la sua storia, anzi per raccontare la storia di sua madre. Una storia terribile, quella dell’atomica su Nagasaki, di enorme dolore, ma il kaki ce l’ha fatta, è ancora presente, continua a dare frutti. E’, di fatto, la sua una storia di morte e rinascita.
La voce narrante nel libro è proprio il kaki, che vede più generazioni della stessa famiglia crescere, invecchiare, morire, sopravvivere accanto a lui. E il fatto che sia il suo sguardo a raccontare la storia di noi umani mi convince, credo nel fatto che le piante siano sapienti. Siamo noi che non riusciamo a capirle. L’incontro è avvenuto nel 2014, ma far parlare la pianta non è stato poi facile. Ci ho impiegato tanti anni. Che io sia lenta è cosa certa.
L’emozione di sfogliare la sua prima copia
Ero felicissima. Le illustrazioni di AntonGionata Ferrari sono bellissime e hanno fatto lievitare la storia. Davvero, è stato proprio come mettere il lievito nel pane o in una torta. Non sarebbe stato lo stesso senza.
Ha saputo raccontare la storia con delicatezza e con uno stile italiano ma che richiama il Giappone, per esempio nell’uso della china. E poi la grandezza di AntonGionata sta, anche, nel fatto che i suoi disegni hanno una vitalità intrinseca. E’ incredibile. C’è una solarità che lui dice essere frutto della sue intenzioni, sia voluta, ma io ritengo che sia anche un suo dono. E la vita, la vitalità è l’ingrediente giusto per una storia come questa. E poi del libro mi piace anche il formato, che non è quello dell’albo illustrato classico, ma è più piccino, si può nascondere, quasi tenere in tasca, si può portare con se’. Per i bambini, ma anche per noi grandi è più maneggevole e consente di creare un legame più intimo con l’oggetto libro.
Vivere le prime presentazioni, cosa hai provato?
In generale cerco di vivere le cose in modo spontaneo. Diciamo che alla prima presentazione, che è avvenuta grazie alla Casa della pace di Casalecchio di Reno, la strada della spontaneità non ha funzionato tantissimo! Ora ne ho fatta qualcuna e sono migliorata, almeno a me sembra così, sarebbe da chiedere al pubblico. Il libro è adatto ai bambini dai 7 anni, ma è piacevole anche per gli adulti. Tra l’altro, so che non rientra nella domanda, ma io penso sia importante che ai più piccini venga letto da un grande. Perché comunque, anche se io ho cercato di essere più leggera possibile, è una storia che i bambini attraversano meglio se sono accompagnati. E poi la condivisione del libro si trasforma in un’esperienza. Quindi tornando alle presentazioni ne ho fatte sia ad un pubblico di soli adulti, sia di soli piccini (con le loro maestre), sia di adulti e bambini. Con i bambini è fantastico, sono ricettivi, sensibili, attenti. Sono disarmanti con le loro domande semplici. E mi da speranza vederli così coinvolti dal tema delle pace. Con gli adulti è l’occasione per parlare una volta in più di pace, perché visto quello che sta accadendo è chiaro che se ne parla troppo poco. La cosa bella è quando si crea un dialogo, quando qualcuno ti fa una domanda o un commento o racconta una storia che ti aiuta a capire qualcosa.