Comincio con una considerazione preliminare. Siamo sempre più invasi da sigle e acronimi, e credo che sia per tutti complicato risalire alle designazioni, ai ruoli, ai compiti effettivi. Le conferenze COP e l’IPCC fanno parte della cosiddetta “diplomazia climatica” ma hanno ruoli ed origine distinti. La COP è la conferenza annuale sul clima delle Nazioni Unite, l’IPCC, fondato sotto gli auspici dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) e del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), è un gruppo di scienziati ed esperti che valutano la letteratura scientifica e forniscono informazioni scientifiche sul processo di cambiamento climatico: i suoi rapporti costituiscono un punto di riferimento fondamentale per le COP. E vengono ormai assunti dai media, e di conseguenza dall’opinione pubblica, come l’analisi obiettiva dello stato del clima.

Personalmente, da parecchi anni ritengo che la gravità della crisi climatica si maggiore di come gli scienziati dell’IPCC la rappresentano (2018: https://www.pressenza.com/it/2018/10/lallarme-sul-riscaldamento-globale-potrebbe-essere-piu-grave-di-quanto-viene-valutato/#sdfootnote1anc): non lo dico certo per creare ulteriore allarmismo, ma perché ritengo necessario pretendere dai decisori politici e dai governi decisioni ben più incisive di quelle decise, faticosamente, nelle conferenze COP. E per questo sia necessario andare al di là dei rapporti dell’IPCC.

Non starò a ripetere le considerazioni dettagliate del mio articolo del 25 novembre 2022: https://www.pressenza.com/it/2022/11/sullorlo-dellabisso-nucleare-ambientale-ultima-chiamata/): voglio qui articolare meglio la mie argomentazioni sulla natura dell’IPCC.

Ho sempre denunciato il fatto che l’IPCC non è un comitato indipendente, ma intergovernativo: mi devo correggere. Intergovernmental” è nel nome, ma a ben vedere nei fatti è piuttosto un comitato “governativissimo”, nel senso che, sia per la sua composizione sia per l’impostazione dei suoi lavori, riflette molto fortemente le posizioni dei paesi ricchi, e soprattutto degli Stati Uniti: e i paesi ricchi sono i principali responsabili delle emissioni di gas serra, e dell’(ab)uso dei combustibili fossili.

La realtà della non neutralità dell’IPCC

Prima di entrare nel merito devo però fare una precisazione. La mia critica non riguarda la serietà scientifica dei report dell’IPCC, ma il fatto di presentare ‒ e ormai considerare nei media e nell’opinione comune ‒ l’IPCC come un organismo indipendente e autorizzato (e riconosciuto) a dire la parola finale sulla gravità della situazione climatica: semmai il vero merito che va riconosciuto all’IPCC, e ai suoi report, è di avere sbugiardato definitivamente i negazionisti. Ma sappiamo bene che nelle conferenze COP annuali prevalgono gli interessi dei governi più forti e delle industrie che non ne vogliono sapere di provvedimenti radicali quali il disastro climatico esigerebbe. Forse, se i paesi poveri potessero avere un organismo scientifico che li rappresenti, essi potrebbero rivendicare una maggiore influenza: non solo la scienza, ma la politica scientifica, non sono neutre! Ma anche per questo ci sono motivi molto seri, come vedremo nel seguito.

Un primo indizio di chi l’IPCC rappresenti veramente è dato da questo diagramma:

Se, come penso si possa essere d’accordo, gli scienziati britannici sono abbastanza omogenei con quelli statunitensi, insieme sommano più di 1/3 del totale: come vedremo, la letteratura scientifica analizzata è in stragrande maggioranza in lingua inglese, anche se questo dipende inevitabilmente dalla scelta dell’inglese con lingua scientifica. Soprattutto, i paesi ricchi la fanno veramente da padroni. Com’è possibile pesare che l’IPCC, come organismo, sia super partes?

Indubbiamente le ricerche in campo ambientale richiedono, oltre che forti organizzazioni scientifiche e istituzioni accademiche, ingenti investimenti in infrastrutture, quali super-computer e grandi server, che ovviamente sono proibitivi per i paesi del Sud globale. Tra le 100 istituzioni più citate nel Working Group 1 dell’IPCC (WGI AR6, Sixth Assessment Report), tutte si trovano in Nord America, Europa, Asia e Oceania. e Oceania: nessuna fra le prime 100 si trova in Sud America o in Africa.

<<Una recente analisi intitolata “The Reuters Hot List” ha stilato una classifica dei 1.000 scienziati del clima “più influenti”, in gran parte basata sulle loro pubblicazioni e sul loro impegno sui social media. Gli scienziati del Sud del mondo sono ampiamente sottorappresentati nella lista, con, ad esempio, solo cinque scienziati africani. Inoltre, solo 122 dei 1.000 autori sono donne.>>1

Ma sull’IPCC non è tutto. Gli scienziati che stendono materialmente i rapporti e i tantissimi che collaborano si basano su una messe di lavori e ricerche (14.000) pubblicati e referenziati: un’accurata analisi delle referenze riportate dal Working Group 12 conclude, fra moltissime altre cose interessanti, che:

<<[Fra] i primi 100 Paesi (su 185) da cui provengono le referenze, quelli più rappresentati sono, nell’ordine, gli Stati Uniti, coinvolti in 5871 referenze (circa il 50% del numero totale di referenze disponibili), il Regno Unito con 3039 referenze (26%), la Germania (2118 referenze), la Francia e la Cina (oltre 1500 referenze).>>3

<<Le citazioni nel rapporto sono fortemente dominate dal Nord globale e si leggono spesso dietro un paywall [accesso a pagamento ai contenuti di un sito]. Abbiamo riscontrato che il 99,95% dei riferimenti citati era scritto in inglese e che tre quarti di tutta la letteratura citata nel rapporto presentava almeno un autore con sede negli Stati Uniti o nel Regno Unito.>>4

Il punto centrale: il clima della Terra non sta solo peggiorando (molto), sta cambiando, profondamente

Rifacendomi al mio precedente articolo del 25 novembre 2022, il punto che mi sembra cruciale è che il clima della Terra non è solo perturbato, ma sta cambiando in modi radicali, con fenomeni e processi nuovi, che non esistevano in passato e che per i meccanismi innescati sono destinati a imporsi ed aggravarsi.

I processi di siccità estrema, uragani e cicloni eccezionali, la frequenza e l’intensità delle inondazioni, sono fenomeni alimentati da meccanismi di retroazione (feedback) e da sinergie che sono destinati a intensificarli. L’innalzamento del livello dei mari è inarrestabile perché inarrestabile è lo scioglimento dei ghiacci, ed è destinato ad invadere i grandi centri urbanizzati sorti sulle coste, e provocherà flussi biblici di migranti climatici.

Nell’articolo di novembre (https://www.pressenza.com/it/2022/11/sullorlo-dellabisso-nucleare-ambientale-ultima-chiamata/) citavo la minaccia derivante dall’indebolimemnto della Corrente del Golfo e della sua possibile inversione, ma tutte le correnti marine si stanno modificando, e non minore è la minaccia denunciata recentemente su Nature che lo scioglimento dei ghiacci dell’Antartico potrebbe provocare il ribaltamento della circolazione oceanica antartica, che fa parte delle correnti che trsferiscono calore, ossigeno e nutrienti attorno al globo5.

Quanto ai rimedi, gli scienziati dell’IPCC si aspettano che i paesi africani riducano l’uso di combustibili fossili due volte più velocemente delle nazioni sviluppate: ma il prestito di denaro per gli investimenti in energie rinnovabili è più costoso per le nazioni africane.

Non ho l’ambizione (né le capacità) di impostare un’analisi generale, ma credo che sia utile soffermarmi su alcune situazioni che mi sembrano abbastanza rappresentative.

Calamità in Africa

Parto dall’Africa, riferendomi a un articolo di una decina di giorni fa della rivista Foreign Policy, Africa Brief, “Climate Change Wreaks Havoc in Southern Africa”, della giornalista Nosmot Gbadamosi6.

«La siccità in Somalia, le inondazioni in Nigeria e un ciclone in Malawi hanno confermato le cupe proiezioni climatiche degli scienziati sul futuro dell’Africa. …

Il rapporto è stato pubblicato lo stesso giorno di un altro sondaggio delle Nazioni Unite che ha stimato che 43.000 persone sono morte durante la peggiore siccità della Somalia negli ultimi decenni, e la metà di queste morti erano probabilmente bambini sotto i 5 anni.

La scorsa settimana [13-19 marzo] il ciclone Freddy, che ha devastato il Mozambico, il Madagascar, l’isola della Riunione e lo Zimbabwe, è tornato a colpire l’Africa australe per la seconda volta in un mese, uccidendo centinaia di persone in Malawi e Mozambico e lasciando decine di migliaia di senzatetto in quella che potrebbe essere la tempesta prolungata più lunga mai registrata.

I cicloni sono tipici della regione tra novembre e aprile, ma ciò che rende Freddy unico, secondo gli esperti meteorologici dell’ONU, è che non si è mai completamente dissipato, nonostante le numerose frane. Gli scienziati dicono che il riscaldamento globale causato dalla maggior parte delle nazioni industrializzate che emettono gas serra ha reso l’attività del ciclone più frequente e intensa. …

“Il livello di devastazione con cui abbiamo a che fare è maggiore delle risorse che abbiamo”, ha detto il presidente malawiano Lazarus Chakwera in un discorso televisivo. …

Circa 59.000 mozambicani sono sfollati a causa della tempesta, secondo le autorità locali [più di 350.000 in Malawi]. La situazione è stata aggravata da un’epidemia di colera in corso. Secondo l’Unicef, i casi sono quadruplicati a oltre 10.000, con più di 2.300 casi segnalati nella scorsa settimana.»

A proposito di colera, il Malawi sta vivendo la più mortale epidemia della sua storia (ma è lontano da noi!): Petra Khouri (Croce Rossa internazionale), “Cholera is back but the world is looking away”, British Journal of Medicine7.

E sempre a proposito delle contraddizioni riguardanti l’Africa:

«Raggiungere lo zero netto [di emissioni] in Africa è complicato dagli obiettivi di fornire elettricità a molti nella regione che non hanno accesso e quindi usano forme tossiche di energia come la legna da ardere. I leader africani sostengono che l’unico modo realistico per fornire energia a buon mercato è attraverso il carbone.

Uno studio pubblicato il mese scorso sulla rivista Nature ha trovato che gli scienziati dell’Ipcc si aspettano che i paesi africani riducano l’uso di combustibili fossili due volte più velocemente delle nazioni sviluppate. Tuttavia, il prestito di denaro per gli investimenti in energie rinnovabili è più costoso per le nazioni africane.»

L’altro estremo del Nord globale: il difficile inverno negli Stati Uniti

Le notizie che ci danno le televisioni mi sembrano frammentarie se non episodiche per una comparazione delle situazioni nel (diciamo) Nord globale.

Mentre in Europa abbiamo sperimentato un inverno straordinariamente mite e secco, e si prospetta un’estate con gravissimi problemi idrici, la situazione è radicalmente diversa negli Usa. Da un paio di mesi il paese è stato attraversato diagonalmente da una forte corrente a getto, che spinge il calore a concentrarsi nel Sud Est del Golfo del Messico e dell’Atlantico con punte di calore eccezionali, mentre l’aria fredda è spinta ad Ovest dove sulla costa del Pacifico incontra correnti sature di umidità provocando piogge torrenziali, inondazioni. e nevicate eccezionali.

Verso la fine di febbraio almeno 75 milioni di americani erano sotto osservazione, allerta o avviso di tempesta. Migliaia di voli sono stati interrotti. In marzo si sono verificate forti nevicate in gran parte del Midwest e in alcune zone di pianura, oltre a rare nevicate nella contea di Los Angeles e a San Francisco.

Verso la metà di marzo pioggia, neve pesante e venti forti anche a New York e nel New England.

Il 22 marzo un’altra violenta tempesta si è abbattuta sulla California: fortissimi venti, piogge intense e inondazioni hanno scosso la Bay Area e il sud del Paese: più di 200.000 clienti hanno perso la corrente. La tempesta trascina un fiume atmosferico verso la California meridionale, causando pioggia intensa, neve e forti venti.

Il 23 marzo un tornado ha colpito la parte orientale di Los Angeles, il più forte nell’area metropolitana da 40 anni (1983, in quest’area fenomeni come questo sono molto rari). Un complesso sistema temporalesco sta colpendo il Midwest e il Sud. Il 24 marzo un tornado ha ucciso 26 persone in aree rurali (prevalentemente di afroamericani) in Mississippi ed Arizona, decine i feriti. Il 31 marzo un grande tornadi ha investito l’Arkansas. Almeno 9 persone sono morte il 1o aprile nel Midwest e nel Sud in episodi legati alla tempesta. Il Servizio meteorologico nazionale ha segnalato tornado in almeno sette Stati, tra cui Arkansas, Illinois, Indiana e Tennessee.

Asia occidentale. Si registra un’ondata sbalorditiva di calore precoce, con centinaia di nuovi record di temperatura massima per marzo: 41,4o C in Vietnam, 40,0o C in Laos, 37,9o C a Taiwan.

L’Argentina ha avuto l’estate più rovente da almeno 62 anni: a metà marzo, ormai nell’autunno meteorologico, si sono registrate punte fino a 40o C, seguite da violenti temporali.

Una lacuna di fondo nelle Conferenze COP sul cima: le emissioni del Pentagono. E degli eserciti

Fino dalla Cop 3 del 1997 che approvò il Protocollo di Kyoto ‒ primo trattato internazionale in materia ambientale, peraltro mai ratificato da Washington, unico paese al mondo ‒ proprio gli Stati Uniti pretesero di essere esentati dal riportare le emissioni climalteranti del Pentagono e dall’obbligo di ridurre l’inquinamento, e i consumi, dovuti alle proprie forze armate (sancito poi da un decreto ufficiale della Casa Bianca nel 1999).

Questo problema non è di importanza marginale perché il Pentagono è il maggiore responsabile individuale (governativo) al mondo di emissioni di CO2 8: cioè a parte gli Stati nazionali. L’esercito americano emette più anidride carbonica nell’atmosfera di interi paesi come la Danimarca o il Portogallo9. In generale, i governi non sono tenuti a riportare le emissioni dovute alle attività dei propri eserciti. Una enorme lacuna, che non sembra essere denunciata dai media che riportano i report dell’Ipcc.

1# A. Tandon, “Analysis: The lack of diversity in climate-science research”, Carbon Brief, 6 ottobre 2021, https://www.carbonbrief.org/analysis-the-lack-of-diversity-in-climate-science-research/.

2# Altri due gruppi si occupano rispettivamente degli impatti e vulnerabilità, e delle mitigazioni dei cambiamenti climatici: forse non stupisce che richiamino meno l’attenzione.

3# F. Chavelli, S. Connors, Analysis of the WGI contribution to the Sixth Assessment Report: Review of the WGI AR6 references, 26 febbraio 2022, file://///home/utente/Scaricati/CHAVELLI_IPCC_WGI_AR6_References_Analysis_Report.pdf.

4# “Guest post: What 13,500 citations reveal about the IPCC’s climate science report”, Carbon Brief, 16 marzo 2023, https://www.carbonbrief.org/guest-post-what-13500-citations-reveal-about-the-ipccs-climate-science-report/.

7# https://doi.org/10.1136/bmj.p141 (Published 19 January 2023).

8# L’analisi più aggiornata ed esaustiva delle emissioni del Pentagono è stata pubblicata cinque mesi fa da Neta Crawford, professoressa di relazioni internazionali all’Università di Oxford: The Pentagon, Climate Change, and War – Charting the Rise and Fall of U.S. Military Emissions, MIT Press, ottobre 2022.

9# Si veda ad esempio, S. Kehrt, “The U.S. Military Emits More Carbon Dioxide Into the Atmosphere Than Entire Countries Like Denmark or Portugal”, Inside Climate News, 18 gennaio 2022, https://insideclimatenews.org/news/18012022/military-carbon-emissions/.