Quando ho letto letto La giungla di Calais dell’antropologo Michel Agier, non immaginavo che l’attenzione sulla piccola cittadina francese fosse iniziata intorno agli anni 90 con la caduta dei regimi comunisti. All’epoca i cittadini dei Paesi dell’est Europa residenti all’estero potevano viaggiare senza visto sul territorio dell’Unione Europea, ma venivano spesso respinti alla frontiera britannica, ritrovandosi perciò bloccati a Calais che, 30 anni dopo, verrà definita dalla stampa internazionale come lo specchio del Mediterraneo.

Nel febbraio 2022 ho trascorso all’incirca una settimana nella città di Calais, mosso dall’intento di comprendere cosa restava della cosiddetta Giungla, al tempo un insieme di insediamenti informali creatosi in conseguenza del processo di esternalizzazione del controllo della frontiera britannica sul suolo francese. Lo scopo di tale dispositivo era di allontanare i migranti dalla città di Calais, arrestandoli ed espellendoli e, attraverso una strategia temporeggiante, disperdendoli fuori dalla regione.

La mia prima impressione non fu di certo quella descritta dall’antropologo francese che si trovò di fronte a una moltitudine di persone che camminavano da tutte le parti, in un alternarsi di ristoranti, negozi, hotel e venditori di carte telefoniche.

Dirigendomi verso la zona est della città, la presenza delle industrie e dei capannoni abbandonati si incrociava con la superstrada che collegava le campagne alla zona industriale. Durante il tragitto mi sono spesso soffermato sugli oggetti che i migranti avevano lasciato lungo la strada: coperte, pantaloni, scarpe e bottiglie testimoniavano un passaggio lungo Avenue Du Commandant Cousteau, prima di arrivare all’ex Giungla.

In un silenzio pieno di inquietudine camminavo lungo la via e notavo i movimenti delle telecamere al mio passaggio. Ero solo, lungo la pista ciclabile la presenza umana era assente, le alte reti e i binari del treno, ormai sommersi dalla vegetazione, mi facevano intravedere altri oggetti abbandonati: indumenti vari e sacchi a pelo nascosti tra le erbacce, come segni di una presenza, mi evocavano l’immagine delle salme.

Non avendo alcun contatto a disposizione decisi di incontrare i volontari dell’associazione Auberge des Migrants, un’organizzazione nata nel 2008 che ha sede in un magazzino della zona industriale della città. L’associazione lavora con gli esuli a Calais fornendo aiuti materiali, alimentari e difesa dei diritti avendo come obiettivo anche la promozione della dignità umana. Su loro consiglio mi incamminai per cercare degli insediamenti e scorsi dei giovani ragazzi con delle taniche di acqua lungo la ferrovia parallela alla strada. Decisi di oltrepassare il passaggio a livello e arrivai a una strada sterrata, dove piccoli gruppi di migranti si dirigevano verso il campo incolto. Decisi timidamente di attraversarlo, in direzione delle tende nascoste tra erbacce e arbusti.

Districandomi tra i rami salutai il primo gruppo di persone, tutti giovani provenienti dal Sudan, di età compresa tra i venti e i trent’anni. In particolar modo conobbi A, uno dei pochi che parlava inglese.  Mi ha raccontato del suo lungo cammino dal Sudan alla Francia. É partito appena maggiorenne e ora, a 23 anni, si trovava a Calais da ormai 6 mesi.

M, un altro componente del gruppo, indossava diversi anelli alle dita delle mani, ognuno con una storia legata agli affetti personali. Dopo una giornata trascorsa sotto teloni bucati cercando di ripararsi dalla pioggia e dal vento, con un’attenzione quasi rituale asciugava i pantaloni, resi umidi dal tempo uggioso. Proseguiva pettinandosi e guardandosi in un piccolo specchio che i ragazzi condividevano. Ricordo che stupito gli chiesi perché si stava preparando, M. alzò il capo e facendomi intravedere un sorriso fiducioso mentre si sfregava le mani, mi confessò che quella notte avrebbe tentato la traversata.

Il giorno seguente ritrovai le stesse persone, M. compreso. I sorrisi del giorno prima erano ormai svaniti, gli sguardi affranti non avevano bisogno di grandi spiegazioni: il tentativo non era andato a buon fine.

Lasciai il campo e mi rivolsi ai volontari dell’Auberge des migrants per ottenere qualche dettaglio sullo sgombero: “Gli sgomberi sono quasi all’ordine del giorno e le giornate dei migranti dipendono da questa pratica violenta” mi confessò una giovane volontaria, aggiungendo che le tende venivano smontate e spedite in un container a cinque chilometri di distanza.

Sebbene secondo l’agenzia Frontex gli attraversamenti della Manica siano in aumento negli ultimi anni, è forse bene soffermarsi sull’abitare la città di Calais dopo lo smantellamento della Giungla dal punto di vista dei migranti. Nel 2017 è nato Human rights observation (HRO), uno strumento di osservazione e monitoraggio, dal 2019 sotto la supervisione dell’Auberge des Migrants, che raccoglie e analizza i dati della azioni intraprese dalle autorità locali.

Nel rapporto annuale del 2021, HRO afferma che “a Calais nel 2021 i siti in cui sono insediati gli sfollati sono stati sgomberati con la forza in media 4,5 volte ogni settimana, senza alcun ordine del tribunale”, tanto che alcune vittime degli sgomberi anticipano le autorità, iniziando a spostare le tende prima dell’arrivo del convoglio di polizia. Secondo il rapporto mensile del febbraio 2022 di HRO ci sono stati 157 sgomberi di insediamenti informali, almeno 306 tende e teloni sequestrati e 12 arresti.

Se guardiamo i rapporti mensili, la situazione degli ultimi tre mesi sembra leggermente cambiata: durante i mesi di novembre e dicembre 2022 il numero di sgomberi è diminuito rispettivamente fino a 135 e 100, nonostante il numero di arresti sia stato maggiore. Se guardiamo invece al totale, nel 2022 gli sgomberi sono stati 1.669, in aumento rispetto all’anno precedente, che ne aveva accumulati 1.226. Questo nuovo anno sembra aprirsi con i numeri in calo: nel gennaio 2023, ci sono stati 71 sgomberi e 113 tende e teloni sequestrati, mentre il numero di arresti rimane costante.

Sebbene i numeri ci suggeriscano che gli sgomberi negli ultimi 3 mesi stiano diminuendo, è bene osservare questo fenomeno da un punto di vista politico più che prettamente quantitativo e riflettere sulle strategie che lo Stato utilizza per controllare i flussi migratori, un approccio che racchiude al suo interno una violenza di tipo simbolico.

Nell’articolo Confinare con il domicidio: spazializzare la cittadinanza a Calais (2019) nel numero 26 della rivista Citizenship Studies, lo studioso Travis Van Isaacer parla infatti di pratiche di domicidio per spiegare come le pratiche domiciliari contro i valichi di frontiera a Calais siano delle vere e proprie tecnologie di cittadinanza e governance delle migrazioni che hanno l’intento di sradicare le persone dal territorio circostante. L’autore descrive la pratica di domicidio bastone carota attraverso la quale lo sgombero e la distruzione delle abitazioni autonome dei migranti si mescolano con una contemporanea offerta di alloggi da parte dello Stato, mettendo sotto scacco gli indesiderati. Secondo l’autore, la messa in atto di tali tattiche ha permesso allo Stato di allontanare sempre di più i migranti dalla cittadina francese e dunque dal confine con il Regno Unito, acquisendo una capacità di detenzione/deportazione attraverso il controllo della città.

Dove un tempo si era creato un microcosmo caratterizzato da pratiche di auto-costruzione che restituivano un’identità e una volontà politica a chi le viveva, oggi restano alte reti metalliche, sistemi di video sorveglianza e strategie dello sgombero continuo che in qualche modo ci restituiscono l’immagine del muro, sostituendosi – all’interno di un’enorme contraddizione – a quella del mare: lo spazio che da sempre rappresenta l’illusione di un ponte verso nuove possibilità.

Fonti:

Agier, M., Bouagga, Y., & Trépanier, M. (2018). La giungla di Calais: i migranti, la frontiera e il campo. Ombre Corte.

Travis Van Isacker (2019) Confinare con il domicidio: spazializzare la cittadinanza a Calais, Citizenship Studies, 23:6, 608-626, DOI: 10.1080/13621025.2019.1634422

https://humanrightsobservers.org/wp-content/uploads/2022/07/Annual-Report-2021.pdf

https://www.laubergedesmigrants.fr/en/

Giacomo Longo nasce a Vicenza nell’aprile del ‘96. E’ laureato in Scienze dell’Educazione presso l’Università di Padova, dove si avvicina per la prima volta al mondo del carcere minorile grazie ad un’esperienza di tirocinio in Brasile con il ProgettoBea (Associazione Enars), che nasce grazie a una rete di collaborazioni con Università, enti pubblici, privati e singole persone della comunità locale. Decide di dedicarsi successivamente all’antropologia iscrivendosi alla laurea magistrale in Antropologia Culturale presso l’Università di Torino.

Durante gli ultimi anni sviluppa una forte passione per il foto-giornalismo, interessandosi in particolar modo al mondo del carcere e ai fenomeni socio-culturali cosiddetti marginali. É appena rientrato dalla seconda esperienza brasiliana all’interno di una struttura penitenziaria per minori nella città di São Luis, capitale dello Stato del Maranhão. Ora sta ultimando il suo percorso di studi.