La recente concatenazione di eventi che sta attraversando la tensione politico-diplomatica tra Serbia e Kosovo sembra indicare un’accelerazione, se non addirittura una stretta, che potrebbe preludere a novità significative nei rapporti, negli ultimi tempi particolarmente tesi e problematici, tra Belgrado e Prishtina.

Quest’oggi, 2 febbraio, si tiene la sessione del Parlamento della Serbia dedicata al “Rapporto sui negoziati con le istituzioni temporanee di autogoverno di Prishtina dal 1° settembre 2022 al 15 gennaio 2023”, nella quale torna al centro del dibattito la discussione sul Kosovo e le problematiche e le prospettive che lo stallo nel processo di dialogo e le gravissime tensioni degli ultimi mesi hanno riaperto. È tuttavia dopo la data del 15 gennaio che nuove mosse hanno riportato all’attenzione internazionale la controversia kosovara: lo scorso 20 gennaio gli inviati di Stati Uniti, Unione Europea, Francia, Germania e Italia hanno incontrato dapprima il capo dell’autogoverno kosovaro, Albin Kurti, quindi il presidente serbo, Aleksandar Vučić, per colloqui riguardanti i prossimi passi verso la «normalizzazione delle relazioni» e, di fatto, per una ricognizione intorno alle proposte diplomatiche, in primo luogo la cosiddetta «proposta franco-tedesca», per il superamento del conflitto e la stabilizzazione dell’area.

Secondo quanto riferito dalla stampa, il mediatore europeo Miroslav Lajčák ha descritto la proposta come «la strada migliore per la normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo e per l’integrazione europea della regione». La piattaforma diplomatica posta al centro dei colloqui sembra tuttavia variamente scontentare tutte le parti. Organi di stampa hanno riferito delle difficoltà dell’incontro con Kurti, descritto da Lajčák come «lungo e non semplice»; diversamente problematica sembra essere stata la ricezione nel contesto dell’incontro con Vučić, che ha intanto annunciato l’avvio di ulteriori consultazioni in Serbia, ritenendo «accettabile» il concetto di fondo della proposta, ma anche ribadendo che intanto tutti gli accordi pattuiti siano concretizzati e implementati e per quanto attiene alle nuove formulazioni, siano ridiscusse le parti controverse e problematiche. «Abbiamo convenuto che il conflitto congelato non è una soluzione, perché quando c’è un conflitto congelato, è solo questione di tempo prima che qualcuno lo sblocchi», secondo quanto ha dichiarato.

La questione dell’implementazione degli accordi pattuiti da entrambi le parti, a partire dagli Accordi di Bruxelles del 2013 e del 2015, sostenuti da Belgrado e ora avversati da Prishtina, resta estremamente delicata, se è vero che il Ministro degli Esteri serbo Ivica Dačić vi è tornato su a più riprese. La prima il 10 gennaio, a margine della conferenza stampa congiunta con l’omologo ungherese Peter Szijjarto, a Budapest, per ribadire le tre “linee rosse” della Serbia sul Kosovo: «Primo – tutti gli accordi sottoscritti finora vanno rispettati e attuati. Secondo – non intendiamo riconoscere l’indipendenza del Kosovo, accettando la sua ammissione alle Nazioni Unite, non essendo stato ancora risolto il problema dei rapporti reciproci. Terzo – la sicurezza dei serbi del Kosovo è la priorità assoluta», aggiungendo una critica alla politica dei doppi standard seguita dalle cancellerie occidentali sulle questioni fondamentali della sovranità, dell’autodeterminazione e dell’integrità territoriale, con riferimento ai casi di Ucraina e Serbia.

Poi, ancora lo scorso 28 gennaio, per ribadire che la creazione della Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo resta il nucleo di tutti gli accordi relativi alla questione, aggiungendo, come riferito dalla stampa, che «l’accordo non è ideale, ma nelle condizioni nelle quali era stato negoziato è il massimo che si potesse ottenere».

Ma cosa c’è scritto nel cosiddetto “Piano franco-tedesco”? Si compone di dieci punti e si propone come piano complessivo di normalizzazione: una normalizzazione, tuttavia, ambigua, che non comporta il riconoscimento formale del Kosovo come Stato, ma nella pratica implica l’ammissione della statualità della regione a tutti gli effetti. Pone la questione che Serbia e Kosovo sviluppino normali rapporti di buon vicinato sulla base di pari diritti e riconoscano reciprocamente documenti (ad es. i passaporti) e simboli ufficiali (ad es. i timbri doganali). Ribadisce le questioni generali della sovranità, dell’indipendenza, dell’integrità territoriale, il diritto di autodeterminazione e la tutela dei diritti umani. Impegna Serbia e Kosovo a risolvere le dispute bilaterali esclusivamente con mezzi pacifici. Pone la questione per cui nessuna delle due parti possa rappresentare o intervenire a nome dell’altra nei consessi internazionali; impone alla Serbia di non opporsi all’ammissione del Kosovo in qualsiasi organizzazione internazionale, compresi i vari organismi e agenzie delle Nazioni Unite; e vincola entrambi a sostenere la reciproca aspirazione ad aderire all’UE. Sollecita un approfondimento della cooperazione in tutti i settori (economia, trasporti, comunicazioni, energia, giustizia, polizia, sanità, cultura, sport, ambiente). Prospetta la soluzione definitiva di un «accordo globale giuridicamente vincolante per la normalizzazione dei rapporti». Una normalizzazione sul cui concetto, tuttavia, non vi è intesa; il piano non la delinea nei termini del riconoscimento formale della statualità kosovara, ma la prospetta di fatto anche in relazione all’attribuzione di un seggio per il Kosovo nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Un piano che, di conseguenza, non ha mancato di sollevare interrogativi e proteste. Né può essere dimenticata la risoluzione vincolante 1244 (1999) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Intanto organi di stampa hanno diffuso la notizia di ipotizzate ritorsioni in caso di rifiuto della proposta. In base a queste ultime, il Kosovo perderebbe quanto sinora conseguito nei vari accordi (ad es. il prefisso internazionale +383 e il controllo di due punti di transito amministrativi con la Serbia); la Serbia potrebbe vedere sfumare la possibilità di aderire all’Unione Europea, vedrebbe svanire importanti investimenti da parte dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, potrebbe persino vedere il ritorno del regime dei visti. Una strategia di mediazione da parte europea, se queste indicazioni fossero veritiere, in stile «carota e bastone»: non certo la più promettente.