Una delle cose più abominevoli della guerra è costringere qualcuno a uccidere o farsi uccidere.

Tempo fa leggevo un articolo sullo stress post-traumatico di tanti reduci del Vietnam ricoverati in reparti psichiatrici. Una generazione è stata annichilita.

Dopo l’esplosione di una violenza istituzionalizzata e considerata presentabile nella buona società americana, molti reduci sono implosi, schiacciati dal peso dei loro incubi.

Il trauma dei soldati è analizzato nel film Full Metal Jacket. Parla di Vietnam, ma è una finestra su tutte le guerre. È un racconto feroce di quello che ti aspetta durante l’addestramento e mentre infuria la battaglia. In quei contesti rimane a galla chi si rifugia nell’annullamento di sé per trasformarsi in una macchina. Chi non ci riesce sprofonda nel delirio. Ma anche i soldati che mantengono un precario e contraddittorio equilibrio perdono qualcosa per sempre, persino quando sopravvivono, persino quando riescono a immergersi in una disperata apatia. Magari tornano a casa, ma sono rassegnati alla brutalità del mondo.

Non entro nei dettagli per non rovinarvi il film. Va guardato. Io l’ho visto tutto d’un fiato, malgrado qualche cedimento emotivo di fronte alle sequenze più crude.

La verità è che non sopporto l’idea di un’arma da fuoco nelle mie mani, neanche come astrazione confinata nell’iperuranio, nemmeno come riflessione filosofica durante un cineforum o come ipotesi enigmistica in un gioco di società.

Non reggo l’idea di toccare fucili o pistole in nessuna situazione, anche se sto affrontando l’argomento proprio ora, in preda a un attacco di autolesionismo. Mentre scrivo, tento di sopprimere l’immagine dell’arma nel mio pugno, ma il mio flusso di coscienza è indisciplinato. Ricado nella condizione paradossale di chi cerca di non pensare al porpora e quel colore, come per dispetto, diventa un chiodo fisso.

Vista la mia curiosa idiosincrasia per stragi e cose simili, posso vagamente intuire l’abissale sconforto dei giovani russi e ucraini mandati a combattere contro la loro volontà. Al loro posto mi ubriacherei a morte durante il viaggio verso la prima linea.

Le alternative esistono: scappare chissà dove, oppure ribellarsi a viso aperto, subire un arresto e finire in carcere, per poi subire i soprusi di guardie poco compassionevoli in celle sovraffollate. Sono da mettere in conto anche le torture.

Durante la guerra, la retorica patriottarda scorre a fiumi e la diserzione diventa il tradimento supremo. Non puoi aspettarti di essere trattato con i guanti, se getti il fucile in un fosso di fronte al generale.

Avrei il coraggio di essere un oppositore che sfida il sistema a viso aperto e si prepara ad affrontare terribili conseguenze? Difficile rispondere. Non voglio conferire a me stesso premi e attestati di merito psichici per atti eroici che non ho commesso. Forse, semplicemente, tenterei la fuga insieme a una moltitudine.

So solo che non potrei combattere. So solo che tante persone si oppongono, si sottraggono alle armi, disertano, ma al loro posto non saprei dove scappare, perché qualsiasi cartina geografica mostra con implacabile chiarezza che esistono Stati e confini.

Dobbiamo offrire un rifugio a chi brucia la divisa, invece di raggiungere nuove vette di perfezione nel voltare la testa dall’altra parte. Apriamo le nostre deplorevoli frontiere per proteggere i disertori russi e ucraini.

Facciamo risuonare il nostro barbarico yawp sui tetti del mondo per chiedere che ottengano lo status di rifugiati.

La scelta di non combattere deve diventare un diritto umano.

Finora questo tema è rimasto troppo ai margini del dibattito pubblico.

Portiamola avanti come si deve, senza dimenticare le basi, questa lotta antimilitarista.