La Storia la scrivono i vincitori, recita un noto luogo comune, anche se non tutti gli addetti ai lavori concordano, per esempio l’ottimo e brillante Alessandro Barbero.

E in effetti se guardiamo anche alla nostra storia c’è da dubitarne. I fascisti, anche grazie all’amnistia di Togliatti, rimasero nei vari apparati dello Stato, vedi quel Silvano  Russomanno che poi ritroveremo nei locali della Questura di Milano all’indomani della strage di Piazza Fontana a costruire la montatura contro gli anarchici. In tempi più recenti abbiamo assistito allo sdoganamento berlusconiano che ha portato i figli e i nipoti dei “ragazzi di Salò”, per usare la sciagurata frase di Luciano Violante, dentro le massimo istituzioni, ricoprendo ruoli di governo, fino ad arrivare all’attuale esecutivo targato Meloni/La Russa. Per non parlare della produzione culturale, tra saggi pansiani sui partigiani assassini e pessime fiction di analoga impostazione.

Ma ci sono vinti e vinti, vedi la  generazione che tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo tentò “l’assalto al cielo”, alla quale  è stato riservato ben altro trattamento.  Con l’affermazione della superficiale e un po’ cialtronesca vulgata sugli “anni di piombo” si è affermata una ricostruzione del periodo in questione a senso unico, così i liceali di oggi, per quel poco che sanno, credono che la bomba a Piazza Fontana l’abbiano messa le Brigate Rosse. Su una  stagione di lotte e importanti conquiste politiche e sociali, certamente in un contesto estremamente duro e drammatico, non immune da errori anche tragici, è calata una valanga di infamie e bugie, dipingendo i protagonisti di allora come terroristi, fanatici e violenti. Anche qui saggistica nonché produzione cinematografica e televisiva si sono sbizzarrite.

Per fortuna ogni tanto c’è chi ostinatamente prova a proporre una narrazione diversa, che riequilibra la ricostruzione storica imperante, dando la giusta dignità a una generazione che meriterebbe ben altro giudizio.

A dicembre è andato in onda su Rai Play, il documentario “Lotta Continua”, in quattro episodi, che offre una versione onesta ed equilibrata non solo sulla storia della più importante organizzazione della sinistra extraparlamentare, ma sullo stesso decennio. Documentario che è stato proposto ufficialmente su Rai Tre il 13 gennaio, lo stesso giorno in cui nelle librerie è uscito l’ultimo lavoro di Guido Viale, uno dei rappresentanti più autorevoli e limpidi della generazione sessantottina. “Niente da dimenticare”, sottotitolo “Verità e menzogne su Lotta Continua”, Edizioni Interno 4, che in pochi giorni ha avuto tre ristampe con una tiratura arrivata a quattromila copie; non è solo un saggio che si sofferma sulla storia dell’organizzazione e ribatte alle tante infamie che le si sono rovesciate addosso, ma mette in risalto il grande patrimonio di vicende che coinvolse decine di migliaia di giovani in Italia e diede vita ad una fase storica internazionale per ora unica: “Il ’68 è stato la prima manifestazione di una globalizzazione: una globalizzazione “dal basso”, effimera e temporanea, a differenza dalla globalizzazione dall’alto in cui siamo immersi  da decenni e da cui stentiamo a uscire”.

Viale ci fa rivivere pienamente le passioni, i sentimenti, gli slanci, nonché i contenuti, che animarono quelle generazioni, dato che  in Italia il ’68, come è stato sottolineato più volte, ebbe un’onda lunga che arrivò fino alla metà degli anni Settanta, unico caso in Europa e non solo. Ma soprattutto fu un evento globale.

“Tutto il mondo sta esplodendo…” cantava Pino Masi, una delle voci più amate di quegli anni, ed era proprio così:  dal ribollire negli Usa delle rivolte nei ghetti neri, delle proteste contro la guerra in Vietnam e delle occupazioni nei campus statunitensi nei primi anni Sessanta, al maggio francese e al suo diffondersi negli atenei di mezza Europa; dai movimenti anticolonialisti in Africa, nel Sud-est asiatico, fino alla Palestina, alla primavera praghese e alla protesta operaia in Polonia nel cuore del dittatoriale impero sovietico, veramente tutto il mondo stava esplodendo.

Il libro racconta in modo estremamente efficace, direi emozionante, il riappropriarsi da parte degli studenti universitari degli atenei, contro il potere baronale,  in una rivolta squisitamente antiautoritaria che metteva in discussione anche la cappa della famiglia tradizionale, rivendicava e praticava una liberazione sessuale ancora più significativa in un Paese cattolico come il nostro, una vento che con il tempo coinvolse anche quel mondo, fino all’incontro con gli operai davanti alle fabbriche, a partire dal simbolo del potere padronale, la Fiat di Agnelli.

Guido Viale, che di quell’abbraccio fu uno dei protagonisti, descrive molto bene che cosa significò per giovani lavoratori arrivati dal Sud, alle prese con la freddezza e il razzismo diffusi ampiamente tra la popolazione  torinese, in una condizione materiale pesantissima tra lo sfruttamento di fabbrica e la dimora in soffitte o in stanze dove a malapena si poteva dormire e mangiare qualche cibo in scatola, incontrare quella gioventù ribelle, vincere l’iniziale diffidenza e compiere una rivoluzione che non era solamente politica e sociale, ma anche e soprattutto culturale.

“In quelle riunioni era un “mondo sommerso”, senza “dignità” politica né legittimità culturale compresso dalla fatica del lavoro e dalle leggi dello sfruttamento che veniva alla luce; messo in pubblico, discusso, confrontato”, che si faceva parola”. Lotta Continua nasce da quel vulcano in eruzione, non da una scissione, o a tavolino in una logica di apparato, ma nel vivo delle lotte, attraverso un incontro fraterno e solidale tra due mondi che non si conoscevano, si ignoravano, che prima si “annusano”, poi gradualmente saldano per alcuni anni le loro vite, i loro destini.

Ma il potere non poteva accettare che tutto ciò minasse le sue strutture, mettesse in discussione decenni di dominio e restaurazione. La Strage di Stato del 1969 a Milano fu una cesura, la risposta sanguinaria e criminale di chi voleva porre un freno a tutto ciò. Interrogandosi su cosa abbia significato per quella

generazione il trauma di quella macelleria, Guido Viale si chiede se invece di esserne stato l’ispiratore e aver coperto gli assassini fascisti e le relative complicità dei servizi segreti, favorendo la successiva nascita dell’embrione del cosiddetto “partito armato” che, nella seconda metà degli anni Settanta svilupperà tragicamente e criminalmente la propria potenza di fuoco, lo Stato avesse perseguito non gli anarchici innocenti ma da subito i veri responsabili. Avrebbe così evitato di innescare una spirale di scontro frontale che gradualmente porterà quella generazione a infrangersi contro il muro del potere e anche farsi ammaliare da una violenza all’inizio difensiva, ma poi offensiva. Lo ha sottolineato Giovanni De Luna nel fondamentale “Le ragioni di una decennio”, in una logica in cui non fu più la “politica  a comandare sul fucile”, per citare Mao, ma il contrario.  Ma viene da rispondere che lo Stato, o comunque parte di esso, non poteva che giocare quel ruolo, se non altro per la presenza di personaggi come il già citato Russomanno.

In ogni caso Lotta Continua, insieme agli anarchici, condusse, affiancata da pochi coraggiosi, una campagna di controinformazione che smascherò ciò che si nascondeva dietro a quella strage e le seguenti trame golpiste. Nel fare questo promosse una campagna sulla quale successivamente fu fatta una lucida quanto impietosa autocritica, contro il commissario Luigi Calabresi, cioè uno  dei responsabili del defenestramento di Giuseppe Pinelli dal quarto piano della Questura di Milano, dopo un fermo illegale e i tre relativi ininterrotti giorni di interrogatorio, al di là che fosse o non fosse nella stanza nel momento del volo dalla finestra.

Viale ripercorre quella campagna ricordandone i motivi, non negandone gli errori e gli eccessi, ma evidenziando come l’obbiettivo fosse di farsi denunciare e portare in tribunale il commissario , che fu poi assassinato da un commando il 17 maggio 1972.

Con il passare del tempo la spinta libertaria e antiautoritaria si affievolì, anche dentro Lotta Continua si svilupparono le critiche giuste e intransigenti del movimento femminista a un certo modo di fare politica, specchio del maschilismo presente nella società e quindi anche all’interno delle organizzazioni della sinistra. Fu il prologo a una crisi della militanza che per quanto riguarda Lotta Continua ebbe il suo epilogo ai primi di novembre del 1976 con il congresso di Rimini che ne sancì lo scioglimento.

Il collettivo redazionale che dal 1972 faceva uscire l’omonimo quotidiano rimase però in piedi, dando vita, attraverso una coraggiosa trasformazione politica e culturale, a un’esperienza importante e originale che, tra l’altro, ebbe una funziona “pedagogica” nei confronti di quel movimento del ’77, di breve durata, ma dove la componente creativa ed eretica dovette lasciare spazio alle dinamiche militariste, suicide, che portarono ad ingrossare le file delle formazioni del terrorismo di sinistra. Poi la vicenda Moro mise la parola fine a quella stagione, con l’appendice della coraggiosa quanto perdente occupazione della Fiat nel 1980. Si assistette a una piccola, grande diaspora dei militanti di LC, si dovette pensare a come “vivere con il terremoto”, pensare ad organizzare la propria vita. C’è chi non ce la fece e si buttò nell’eroina, chi si suicidò direttamente.

A rimettere insieme alcuni dei protagonisti di quella ormai lontana stagione ci pensò la sete di vendetta dello Stato che covava sotto le ceneri. Il 28 luglio del 1988 Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi furono arrestati con l’accusa per i primi due di essere i mandanti dell’omicidio Calabresi, per il terzo di essere uno dei componenti del commando assassino. A questa lunga vicenda giudiziaria, di stampo kafkiano, che durò fino al 2000 con la definitiva ingiusta condanna dei tre, è dedicata la seconda, ampia parte del libro. Una storia che ha avuto ben nove dibattimenti, ventuno tra ordinanze e sentenze, basata esclusivamente sulle dichiarazioni del “pentito” Leonardo Marino, ex militante dell’organizzazione che nell’autoaccusarsi dell’omicidio raccontò una versione che non stava in piedi. Ma era un piatto estremamente ghiotto per far condannare tramite i tre, tutta la generazione a cui appartenevano e Viale lo documenta ed evidenzia con meticolosità.

E infatti in un primo momento gli inquirenti tentarono di tirare dentro “L’esecutivo” di Lotta Continua, cercando di coinvolgere anche altri ex dirigenti dell’organizzazione a partire da Mauro Rostagno, il cui omicidio da parte della mafia avvenuto a Trapani il 28 settembre dello stessa anno impedì loro di proseguire nell’intento. E sulla figura di Rostagno il libro si sofferma, perché si tratta di uno dei figli più nobili del ’68. La sua fine per aver denunciato l’impero di Messina Denaro, allora padrone incontrastato della Sicilia e non solo grazie alle diffuse complicità e copertura del potere politico e statale, fu oggetto di una infame campagna mediatica che per anni attribuì l’assassinio prima addirittura ai suoi stessi compagni di militanza, perché “volevano impedirgli di confessare la verità sul caso Calabresi”, poi alla stessa moglie Chicca Roveri e ad alcuni dei gestori della comunità contro la tossicodipendenza dove Mauro era impegnato da anni. Accuse vomitevoli che sono state portate avanti per anni fino a quando, una volta tanto, la verità giudiziaria ne ha fatto piazza pulita, condannando i mafiosi che lo avevano ucciso. Una dinamica simile a quella del compianto Peppino Impastato.

La canea mediatica si è scatenata anche sulla vicenda Calabresi, nonostante dal primo processo, conclusosi con la condanna, fosse emersa la scarsa spontaneità delle confessioni di Marino, partorite dopo diciotto giorni di colloqui  clandestini con i carabinieri, “confessioni” peraltro che facevano acqua da tutte le parti.

Basti pensare che le dichiarazioni dei testimoni oculari dell’attentato, così come gli stesso rapporti di polizia riguardanti la dinamica della  125 usata dal commando, avessero attestato che al volante c’era una donna e non un uomo. Marino infatti si è era autoaccusato di essere l’autista e le vie di fuga prese dopo aver commesso il delitto erano completamente diverse da quelle indicate dal “pentito”. Ma l’elenco sarebbe lungo e Guido Viale cita tutte le clamorose incongruenze, ricordando come al terzo dibattimento in effetti gli imputati furono assolti, ma il giudice nel redigere le motivazioni scrisse  una sentenza “suicida”, accogliendo le tesi dell’accusa. Un modo carognesco per rifarsi sulla giuria popolare e far sì che la Cassazione inevitabilmente annullasse la sentenza.

Ma i tre dovevano essere condannati per forza anche perché il tutto nasceva da  quella Procura di Milano  all’inizio degli anni Novanta osannata dal popolo italico, purtroppo anche a sinistra, per aver scoperchiato la cosiddetta “Tangentopoli”, il tutto nell’illusione che ciò che non era riuscito alla generazione del ’68 potesse avvenire per via giudiziaria. E infatti poi ci siamo ritrovati Berlusconi… Dunque la Procura di Milano era sacra e non poteva né sbagliare, né essere messa in discussione. E ingiustizia fu.

Il libro di Guido Viale si aggiunge ai non molti contributi che in questi anni hanno messo in discussione la vulgata sugli “anni di piombo”. Nel documentario su Lotta Continua Erri De Luca ha proposto un’efficace e giusta definizione alternativa: “anni di rame”, cioè anni in cui si respirava elettricità ed energia, quella dei movimenti. Niente da dimenticare, molto da rivendicare.